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Si è conclusa ieri la missione in Italia del Fondo Monetario Internazionale con un report che – pur nell'ambiguità di un linguaggio pieno di proposizioni ipotetiche – ha di fatto promosso l'azione...

Si è conclusa ieri la missione in Italia del Fondo Monetario Internazionale con un report che – pur nell’ambiguità di un linguaggio pieno di proposizioni ipotetiche – ha di fatto promosso l’azione del governo Monti. Più in là si è spinta la portavoce della missione durante la conferenza stampa con lo stesso primo ministro italiano.

Solo chi fosse accecato da un’ideologia preconcetta potrebbe ignorare i progressi fatti in termini di credibilità dall’insediamento del nuovo governo rispetto al precedente, il cui discredito era arrivato a vette mai raggiunte dal nostro paese neppure negli anni peggiori Prima Repubblica. E, tuttavia, è proprio questo il punto: la credibilità del premier sembra fare premio sulla realtà dei fatti che vanno in altra direzione, al punto che il Fondo Monetario smentisce se stesso a distanza di appena un mese. Si legge infatti nel report finale, come primo punto:

The economy is expected to contract this year due to strong headwinds from fiscal consolidation, tight financial conditions, and the global slowdown. Economic activity is expected to recover in early 2013 led by a modest pickup in exports and investment. (enfasi nostra)

Solo in Aprile il Fondo Monetario aveva previsto per l’Italia una contrazione anche nel 2013, sia pure più modesta che quella del 2012 (-0,3% contro -1,9%).

Cosa è successo in poche settimane? Il report non lo dice. Prevedere un recupero invece che un ulteriore caduta del Prodotto interno lordo, in una situazione internazionale che sembra volgere al peggio (crisi greca e spagnola, stagnazione negli USA, crescenti misure protezionistiche da parte dei paesi emergenti, ecc.) è una responsabilità e bisognerebbe giustificare il cambiamento di prospettiva, tanto più se si parla di “modesti incrementi delle esportazioni” (ma la nostra bilancia commerciale è strutturalmente in passivo) ed investimenti (forse si allude all’arrivo di capitali cinesi annunciato da Pechino?).

Il FMI poi prosegue spiegando – e su questo non si può che concordare – che il destino del nostro paese dipenderà dall’evoluzione dello scenario europeo. Ma allora c’è da temere un’ulteriore peggioramento e c’è ben poco da essere ottimisti. Scorrendo ancora il report del Fondo guidata da Christine Lagarde si può leggere:

The potential gains to growth from deeper structural reforms are substantial. IMF staff estimates suggest that product and labor market reforms that bring Italy closer to OECD best practices could increase the level of GDP by about 6 percent over the medium term. The government has embarked on important reforms to deregulate the service sector and make the labor market more inclusive and flexible.

E qui il lettore si deve fermare giustamente perplesso. Prevedere una crescita aggiuntiva del 6% anche sulla base della riforma del mercato del lavoro non trova giustificazione neppure nella stessa letteratura del FMI. Da un lato il capo economista Olivier Blanchard ha dovuto ammettere che la deregolamentazione dei rapporti di lavoro non ha evidenti effetti in termini di maggiore occupazione e crescita. Una conclusione ribadita anche da Joseph Stiglitz nel recente incontro con Monti.

Dall’altro si potrebbe sostenere la seguente tesi: la riduzione delle tutele aiuterà a contenere il costo del lavoro (leggasi: comprimerà i salari), rendendo più competitivi i prodotti italiani (ecco quindi il riferimento alle esportazioni), inoltre la stagnazione della domanda interna renderà il mercato nazionale meno permeabile alle importazioni. Insomma la ricetta tedesca (“le migliori pratiche dei paesi OCSE”), applicata 10 anni dopo, nel pieno di una crisi continentale, in un paese che soffre un grave gap di produttività e una crescita di quest’ultima praticamente nulla da un decennio. Non esattamente ciò che si chiama una “strategia ottimale”.

Questo “6 percento” su un sempre più vago “medio termine” sembra quindi un auspicio politicamente indotto, più che una previsione economica.

A proposito della riforma del mercato del lavoro, il Fondo afferma: “It also facilitates hiring by allowing companies to lay off workers for economic reasons and reducing the cost of dismissal”. Ma in Italia già esistono decine di forme con le quali un’azienda può assumere senza preoccuparsi di costi di licenziamento e tuttavia questo è semmai un motivo di incertezza che deprime fortemente la “fiducia” (termine che ricorre molto spesso nel report del FMI, in riferimento però solo ai mercati).

Quanto alla riforma dei mercati dei prodotti e servizi, il Fondo scrive: “Completing the planned separation of gas distribution and production by end year would improve competition and eventually help drive down energy prices, which are among the highest in the euro area.”

Le tariffe elettriche tuttavia sono aumentate o diminuite sostanzialmente seguendo il prezzo del petrolio (va detto che l’Italia nel 2009 e 2010 ha fatto molto meglio che il resto d’Europa). Del tutto diverso il caso francese, in cui l’ex azienda di stato, l’EDF, ancora posseduta all’84% dalla Repubblica, è stata sfacciatamente protetta dal governo. Attualmente EDF è il monopolista de facto, avendo l’87% della produzione, l’84% del mercato ed essendo (dati 2010) il solo operatore nazionale con una quota di mercato superiore al 5%. I prezzi al pubblico dell’EDF (dati Eurostat e Autorità dell’Energia) mostrano incrementi continui ma assai contenuti dei prezzi finali, del tutto imparagonabili agli aumenti presenti nei mercati “liberi” come quello italiano e soprattutto britannico. Certo, grazie al nucleare, ma è appunto questo il problema: liberarsi dalla dipendenza del petrolio, ma eventualmente usando energie ecologicamente sostenibili.

Per inciso, la Francia si è fieramente opposta alla liberalizzazione del mercato elettrico voluta dalla Commissione Europea. La protagonista della disputa era l’allora Ministro francese Christine Lagarde, attuale direttrice del Fondo Monetario Internazionale. Ciò che va bene per gli altri pare non vada bene in casa propria. Anche la previsione che “A greater push for privatization, especially for local public utilities, would enhance the efficiency, cost, and quality of public services.” non trova riscontro nell’esperienza italiana, nella quale la privatizzazione dei servizi locali ha portato ad aumenti tariffari anche piuttosto elevati, minori investimenti, peggioramento della qualità del servizio, tant’è che i cittadini hanno votato in un referendum lo stop alla privatizzazione del servizio idrico. Esperienze simili sono riscontrabili anche altrove in Europa e hanno indotto alla ripubblicizzazione di acquedotti importanti come nel caso di Parigi.

E’ forse utile ricordare a proposito di liberalizzazioni e privatizzazioni che i paesi emergenti stanno seguendo una strada del tutto opposta, che poi è la stessa strada seguita dall’Italia nel dopoguerra e negli anni ’70. L’Argentina ha appena nazionalizzato la propria compagnia petrolifera Ypf, finora detenuta in maggioranza dagli spagnoli di Repsol, poiché essa non è stata in grado di rispondere al crescente fabbisogno di un’economia in forte crescita. Il Brasile ha ricapitalizzato il suo gigante Petrobras, con una crescita notevole del peso del governo sia in termini di azioni che di controllo.

Ma dove il FMI delude maggiormente è nel sostanziale ok all’austerità fiscale e al pareggio di bilancio, visti come necessari per dare credibilità al sistema paese. Ma questa ricetta sta fallendo in tutta Europa e, riguardo l’Italia, è tra i motivi del declassamento di 26 banche avvenuto poci giorni orsono da parte di Moody’s. Insomma, i mercati chiederebbero l’austerità ma poi puniscono chi l’ha messa in atto. Di questo il FMI non sembra voler tenere conto.

Infine appaiono macroscopiche le manchevolezze del rapporto: nulla si dice riguardo l’innovazione tecnologica (se non un accenno in cui però essa dovrebbe provenire dagli investimenti esteri), la ricerca, la modernizzazione del sistema di istruzione, l’assoluta necessità di investire nelle tecnologie verdi e nel settore del software, dove l’Italia è fanalino di coda.

Pensare che qualche liberalizzazione di notai e servizi locali serva alla crescita – addirittura quantificandola – è la solita illusione delle politiche dal lato dell’offerta, mentre il nostro capitale fisico e umano invecchia, sottoutilizzato, nella più profonda crisi da 80 anni a questa parte.

L’entusiasmo dimostrato nel rapporto e nella conferenza stampa, sembra più che altro dettato da motivi politici, cioè dal cercare di sostenere il nuovo governo tecnico che riscuote molta fiducia presso gli organismi internazionali ma ha risultati non lusinghieri sul piano economico. E le ricette del FMI sono tristemente le stesse proposte alla Grecia dall’inizio della crisi.

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