Ci si è indignati per le spartizioni alle due Authorities. Giustamente. Ma i più ignorano come la vera polpa, che la partitocrazia addenta con voracità, è lontana da Roma. È infatti sulle 5 mila e più aziende partecipate da Comuni, Province, Regioni, che la politica esercita da anni il proprio parassitaggio. Piazzando i propri uomini nei relativi consigli di amministrazione; utilizzando i cda come camera di compensazione degli appetiti dei diversi partiti e delle diverse correnti in seno ad essi; collocandovi trombati o politici a fine corsa; facendo assumere cani e porci in posti di comando, indipendentemente dal possesso delle necessarie competenze; ordinando agli organismi direttivi asserviti, specie in periodo pre-elettorale, di reclutare o stabilizzare decine o centinaia di nuove “leve”. Ciò per chiamata diretta e discrezionale e non per pubblico concorso, come forse dovuto per il fatto di essere società in mano pubblica.
Di qui le definizioni, assai calzanti, di poltronifici, vacche da mungere, carrozzoni, che vengono sovente usate per inquadrare, in particolare, le ex municipalizzate. Trasformate solo formalmente in società private, seppur controllate dal pubblico, sono terra di conquista dei vari potentati politici locali. Nessuno dei veri o presunti grandi denunciatori di misfatti pubblici e di sprechi – da Sergio Rizzo del Corriere a Milena Gabanelli di Report -, si è mai avventurato nel mare aperto di queste realtà para-politiche. Che dunque rimangono al grande pubblico tragicamente oscure. Ogni tanto ci viene data in pasto qualche notiziola relativa a piccoli scandali di assunzioni di amici e di amici degli amici. E di conseguenti aperture di inchieste, di cui poi si perdono puntualmente le tracce. L’ultimo caso del genere è accaduto a Roma con l’Atac. Vi ricordate la parentopoli che ha investito in pieno Alemanno? Tanto clamore, poi l’oblio.
I più ignorano il problema dei problemi: questo esercito di 5 mila società controllate dalla politica, in tantissimi casi è centro di spartizione affaristica, strumento di foraggiamento dei partiti, palese ed a volte occulto, nonché occasione di ulteriore sperpero di denaro pubblico. Si tratta peraltro di un mondo granitico, ossia refrattario ad ogni piccolo o grande cambiamento. Nel senso che, guarda caso, resiste da almeno un decennio, ad ogni alito di vento riformatore, che possa portare con sé lo sradicamento di esso dalle logiche parassitarie a cui la politica in troppi casi lo ha condannato. Basta leggere il famoso decreto sulle liberalizzazioni del governo Monti per capire come anche questa non sarà la volta buona in cui prevarrà il mercato sul mercimonio della politica. Previa frequentazione di un corso accelerato di “scasinamento” linguistico, il decreto chiarisce come, ancora una volta, la lobby rappresentata dagli amministratori locali e dalle società di gestione di servizi pubblici locali può cantare vittoria, ma soprattutto tirare un sospiro di sollievo.
Non è bene fare di tutta l’erba un fascio, come si suol dire. Perché ci sono utilities che tendono a fare impresa sul serio, sono gestite da manager capaci e macinano utili, nonostante le azioni di disturbo della politica che piazza incompetenti assoluti dentro i Cda.
È il caso di Hera, ad esempio, che, nonostante sia guidata da un capace “boiardo” di Stato, rimane però ancora un assumificio in mano alla politica, Dove peraltro e come si legge trasparentemente nel sito della società, “tutte le categorie dei dipendenti Hera hanno percepito una retribuzione […] media che supera i minimi contrattuali di una quota pari al 60% per i quadri, pari al 66% per gli impiegati e pari al 45% per gli operai. E dove i dirigenti hanno uno stipendio medio pari a 9528 euro, a fronte di uno stipendio minimo contrattuale pari a 4385 euro. Pago da bere a chi mi trova stipendi di tale tenore in aziende realmente private e soprattutto di questi tempi!
Ben diversa è la situazione nella già citata Atac, che anche quest’anno ha chiuso con una perdita: 180 milioni di euro, contro i 319 milioni di euro nel 2010. Il fatto che Atac si trovi da diverso tempo sull’orlo del baratro non ha impedito ad Alemanno di consentire il reclutamento, come è noto, di un bel po’ di amici e conoscenti. In tutti circa 850 assunzioni tra il 2008 ed il 2010: generi, nipoti, parenti, coniugi di assessori, dirigenti e sindacalisti. Compresa una ballerina da discoteca, diventata assistente personale del direttore industriale. Ma il precarissimo equilibrio di Atac non ha ostacolato anche a passate amministrazioni, di distribuire poltrone a destra ed a manca (per la verità molto a sinistra ed al centro!), salatamente retribuite. 585 mila euro l’anno è il compenso del direttore generale di Atac Patrimonio; il guadagno del direttore generale di Atac è invece pari a 280 mila euro, mentre quello dell’Ad ammonta a 352 mila euro; l’ex assistente dell’ex Ad è stata promossa di recente dirigente con una stipendio annuo da 240 mila euro. Sono cifre da capogiro, insomma, che vengono per giunta elargite a prescindere dal raggiungimento almeno del pareggio di bilancio.
Se da Roma risaliamo l’Italia e giungiamo nella laboriosa Lombardia, desta interesse il caso di A2A, la multiutility dell’energia nata dalla fusione tra la milanese AEM e la bresciana ASM. Dalla integrazione avrebbe dovuto nascere un colosso. Si è assistito, invece, oltreché a clamorosi fallimenti strategici (il caso Edison è ancora fresco), alla creazione di un disavanzo pari a 420 milioni di euro, all’aumento dei costi per il personale a quota 558 milioni di euro, ma soprattutto a colossali operazioni spartitorie. A2A sta cercando in queste settimane di uscire dalla disastrosa gestione di Giuliano Zuccoli, uomo di fiducia della Moratti, recentemente scomparso. Ma ancora la politica stenta a mettere da parte i propri vizi peggiori. Cosicchè si scopre, come ha riportato anche Linkiesta, che il candidato del Comune di Brescia al ruolo di vicepresidente del consiglio di sorveglianza di A2A, privo com’è di particolari competenze in materia, si candida in quanto “figlio dell’avvocato Amilcare Di Mezzo, professionista ed imprenditore bresciano e di Gnutti Giuliana, figlia di Cesarino Gnutti, capostipite della notissima famiglia di imprenditori della Valle Trompia”. Un caso imbarazzante, insomma, ma che in realtà costituisce in tanti casi di cooptazione una regola d’oro seguita dalla partitocrazia. A citare altri casi simili si riempirebbero pagine e pagine.
Il finale del post non può che essere dedicato alla Sicilia, terra che amo, pregna com’è di storia e di una umanità davvero speciale. Ma la Sicilia è anche la terra delle più sperticate lottizzazioni clientelari. Come quelle che hanno riguardato l’ “Amia”, l’azienda della nettezza urbana di Palermo, che, come ha ricordato recentemente Leoluca Orlando, è stata “negli anni novanta il fiore all’occhiello delle società partecipate del comune di Palermo”. Negli anni successivi, quelli in particolare dell’amministrazione Cammarata, è successo di tutto: l’Amia è passata da 1000 a 3000 dipendenti; sono stati assunti 200 contatombini ed altri 200 sono stati ingaggiati per controllare i conta tombini; le perdite sono salite a più di 200 milioni di euro, al punto che è arrivato un commissario.
Tutto questo accade nel sostanziale silenzio mediatico. Anzi, forse, nella complice silenziosa approvazione di chi, anche dalle colonne dei principali media, si è tanto battuto per la “privatizzazione”, l’apertura al mercato delle ex-municipalizzate. Perché poi le spartizioni locali non fanno notizia. Ma soprattutto perché richiede un bel po’ di fatica ed anche una buona dose di fegato ricostruire e denunciare la trama del potere politico, che si appropria di società e le usa arrogantemente come fossero cosa propria.
Nella consapevolezza che lo snodo con cui gestire ed alimentare il consenso saranno sempre più le ex municipalizzate, più che le esangui casse degli enti locali.