Premessa teorica
La teoria neoclassica dell’occupazione, di cui abbiamo già accennato in passato, sostiene che il livello di occupazione dipenda dall’equilibrio tra domanda e offerta di lavoro in base al suo “prezzo”: il salario (in termini reali, cioè in rapporto con il livello dei prezzi). La teoria sostiene che esiste quindi un salario di equilibrio al quale si può realizzare la piena occupazione. Versioni più moderne affermano che in realtà la piena occupazione può non essere raggiunta poiché esiste un livello di disoccupazione “naturale”. Cercando di forzare il superamento di questo livello (chiamato NAIRU, Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment, sviluppato da Milton Friedman per spiegare la stagflazione) con politiche pubbliche di piena occupazione, si otterrebbe una forte inflazione e poi il ritorno verso il tasso di equilibrio “naturale”.
I neoclassici tuttavia sostengono anche che, nella situazione reale di non concorrenza perfetta sul mercato del lavoro, una serie di imperfezioni possano minare il raggiungimento dell’equilibrio ottimale. Tra queste, un eccessivo potere dei sindacati che realizzi un innalzamento dei salari, o, il che è equivalente, un salario minimo stabilito dallo stato, una misura che esiste in quasi tutti i paesi industriali tranne Germania e Italia, dove la determinazione del salario minimo è demandata alla contrattazione tra sindacati e imprese, tenendo però così fuori molti dei lavoratori con contratti atipici. L’innalzamento del salario minimo porterebbe quindi all’aumento della disoccupazione, tanto più in un periodo di crisi economica. Al contrario, il salario minimo in tali casi andrebbe ridotto, per permettere al mercato del lavoro di trovare un equilibrio migliore, o eventualmente eliminato del tutto.
E’, in effetti, ciò che in Europa la Trojka (FMI, UE, BCE) ha chiesto e ottenuto dalla Grecia e in parte dalla Spagna. E’ quindi interessante sottoporre a verifica questa asserzione.
Evidenze empiriche dagli USA
La tabella che presentiamo qui[1] riguarda gli Stati Uniti e riassume i risultati di diversi studi[2]. A parte pochi casi, riporta dati che vanno dal 2009 al 2011, ovvero durante il timido recupero dell’economia americana, quindi in una situazione di crisi ancora ben presente. Fatto notevole, tutti gli stati considerati avevano alti tassi di disoccupazione superiore all’8%, quindi superiore al tasso di disoccupazione naturale che le stime più “pessimistiche” collocano al 7% per gli USA (quelle più ottimistiche ma meno recenti parlano del 5%).
La prima colonna riporta lo stato considerato, la seconda il momento in cui il salario minimo legale è stato incrementato, la terza il dato di disoccupazione precedente, la quarta colonna l’incremento del salario minimo e infine la quinta e ultima riporta la differenza tra la crescita dell’occupazione nel singolo stato e quella media degli Stati Uniti nell’anno successivo alla decisione di aumento del salario minimo. In diversi casi si tratta di incrementi notevoli, anche superiori al 10%.
Se fosse vera la teoria dell’occupazione neoclassica, il risultato atteso dovrebbe essere il seguente: la maggioranza degli stati dovrebbe riportare una diminuzione dell’occupazione, almeno relativamente alla media nazionale. Inoltre tale diminuzione dovrebbe essere maggiore laddove l’incremento del salario minimo è stato più elevato.
Ma il risultato empirico racconta un’altra storia: 21 casi su 35 vedono l’occupazione aumentare oltre la media nazionale. Inoltre sembra esservi una correlazione positiva tra l’aumento del salario minimo e l’occupazione. Per verificarlo abbiamo raccolto i dati in questo grafico, limitandoci ai casi tra il 2009 e 2011 per omogeneità di analisi.
Un ulteriore e interessante test è il seguente. Si consideri il fatto che l’incremento del salario minimo nominale, ove sia inferiore all’inflazione, risulti comunque una diminuzione del salario minimo reale (ovviamente meno pronunciata rispetto a nessun aumento nominale). Il salario reale è la grandezza che in effetti viene considerata nella teoria neoclassica. Pertanto si potrebbe obiettare che l’incremento dei salari minimi nominali può essere accompagnato da un aumento consistente dell’inflazione, che ridurrebbe il salario minimo reale, o lo farebbe aumentare in modo meno pronunciato rispetto a quello nominale.
Non disponendo del tasso di inflazione per singolo stato, considereremo il tasso di disoccupazione nazionale e, per rafforzare il test, considereremo il picco nel periodo tra il 2009 e il 2012, che è pari al 3,9% raggiunto nell’ottobre 2011. In questo modo, con un ragionevole margine di certezza, abbiamo preso in considerazione tutti e soli i casi in cui non solo il salario minimo nominale è aumentato, ma anche quello reale.
Si nota la “sensibilità” alla variazione del salario minimo è diminuita, così come l’indice di correlazione (r quadro). Tuttavia essa è ancora positiva. Ma la cosa più interessante da notare è che solo 3 casi su 13 (nel grafico alcuni punti sono sovrapposti) vedono una crescita dell’occupazione negativa rispetto alla media nazionale. Nel 77% dei casi l’occupazione è aumentata più della media nazionale. Per di più due casi negativi sono lo stesso stato (il Nevada) considerato nel 2009 e nel 2010, il che potrebbe indicare una particolare situazione locale.
Conclusioni
La teoria neoclassica dell’occupazione riceve una parziale smentita dai dati illustrati in questo articolo. In particolare viene smentito uno dei comuni corollari che l’accompagnano, ovvero che i salari minimi costituiscono un impedimento al riequilibrio del mercato del lavoro, con particolare riferimento a una fase di crisi economica.
I dati al contrario mostrano una correlazione positiva tra aumento del salario minimo nominale o reale e l’aumento dell’occupazione proprio negli stati a maggiore tasso di disoccupazione. Dato notevole è che nei casi di aumento del salario minimo oltre il livello di inflazione, uno stato con una elevata disoccupazione ha il 77% di possibilità di accrescere l’occupazione più della media nazionale.
Note:
[1] Tratta da: http://www.americanprogressaction.org/issues/2012/06/minimum_wage.html
[2] Studi riassunti nella tabella:
- Arindrajit Dube, T. William Lester, and Michael Reich, “Minimum Wage Effects Across State Borders: Estimates Using Contiguous Counties,” The Review of Economics and Statistics 92 (4) (2010): 945 – 964.
- Arindrajit Dube, T. William Lester, and Michael Reich, “Do Frictions in the Labor Market? Accessions, Separations and Minimum Wage Effects.” Working Paper 5811 (IZA Discussion Paper Series, 2011).
- David Card and Alan B. Krueger, “Minimum Wages and Employment: A Case Study of the Fast-Food Industry in New Jersey and Pennsylvania: Reply,” American Economic Review 90 (5) (2000): 1397-1420.
- Lawrence F. Katz and Alan B. Krueger, “The Effect of the Minimum Wage on the Fast-Food Industry,” Industrial and Labor Relations Review 46 (1) (1992): 6-21.
- Sylvia A. Allegretto, Arindrajit Dube, and Michael Reich, “Do Minimum Wages Really Reduce Teen Employment? Accounting for Heterogeneity and Selectivity in State Panel Data,” Industrial Relations 50 (2) (2011): 205-240.