Ci sono intellettuali liberi nella società italiani? Probabilmente molti direbbero di sì. Io ho dei dubbi. Non dico liberi di parlare, dico liberi di proporre temi di discussione senza cadere né nel moralistico, né nell’autocompiacimento di essere dissacranti. Consideriamo un dato di cronaca che da tempo occupa molta parte dell’immaginario della nostra opinione pubblica: ovvero il caso Ruby.
In tutta la vicenda giudiziaria legata al caso Ruby fino alle reticenze emerse nelle ultime sedute in aula di tribunale, come su Linkiesta ha raccontato Manuela d’Alessandro, la cosa che dovrebbe far riflettere è come sia sempre più evidente che la questione della costruzione dei sessi, e non solo dei ruoli, costituisca un tema profondo dei modelli comportamentali di massa del nostro Paese.
Non sarebbe improprio che qualcuno con pazienza provasse lentamente ad affrontarlo, e a proporre di discuterne seriamente con un taglio storico, sociale, antropologico, teologico, così come si discute della guerra, o della nascita delle nazioni, o dei movimenti di massa. Ovvero a discuterne coinvolgendo molte competenze professionali e disciplinari e affronta dolo come un serio tema attraverso il quale passa anche la costruzione di un’etica pubblica o si propone un bilancio della condizione della società.
Perché, indubbiamente, anche di lì passerà una parte del processo di crescita di un’opinione pubblica.
Il fatto che ancora nessuno si sia proposto per davvero di affrontarlo, mentre questo è un tema tutt’altro che marginale nella discussione culturale di buona parte delle società politiche democratiche al cui consorzio sosteniamo di appartenere, non dice solo della crisi della politica, ma soprattutto dell’inconsistenza o quantomeno e per certi aspetti della pochezza di noi intellettuali, anche di coloro che pensano di essere non così condizionati dai luoghi comuni.