Fuoco. Un elemento, un’intera generazione. Una parola: “contemporaneità” – che vuol dire tutti quegli stati di cose, attuali che, semplicemente – attraversando la contingenza – succedono. Fuoco, e dunque fiamme. Come quelle che studia Giuseppe, o forse Peppe, Beppe, Pè – che intrappolato nel romanzo di Christian Raimo – Il peso della grazia (Einaudi, 2012) – vive una vita da ricercatore precario, senza borsa, un po’ post-doc (in attesa del vuoto), e un po’ militante dei laboratori: chiuso in uno stipite di esistenza dove, tuttalpiù, i conti non tornano – la vita si blocca, fugge tra gli integrali mal riusciti, appuntati su quei fazzoletti dei bar romani alla mattina, mentre lo scorrimento epicureo semplicemente ti ignora e rimani fermo. Fermo alle chiacchierate con tuo padre, in macchina, guardando un punto fermo dinnanzi a voi, che siete un “noi” al telefono, ma poi estranei in quello spazio obbligato: il tutto prima che si separassero, quell’entità mistica che dà la vita che chiamiamo genitori, spingendoti fuori, una volta e per tutte, dal grembo dell’infanzia. E poi c’è Fiona, in questo libro che vive e crea mondi di Raimo, che appare nella vita di Giuseppe come antidoto dell’amico Lubo, ubriaco, forse – paranoico, e chi non lo è, e che rischia di sparire nella fiamma divampante di quel treno. Nel fuoco, ancora una volta, che Peppe non capisce – che non quadra – in un altro integrale che rischia di portarsi via anche Fiona. Ma lei resta, ti spinge a vivere al di là delle “cose che capitano” – e allora lo “sfanculi”, quel Torelli professore che ti sfrutta aggratis, ma ti rimprovera la sua amicizia in attesa di quel concorsone che non arriva e poi? … poi, Fiora svanisce lo stesso: quasi la fiamma abbia completato, senza farsi vedere, il lavoro che nel laboratorio, ora più grande, che chiamiamo “vita”, non era stata in grado di finire. I colloqui di lavoro, assordanti, l’autogrill e le società diroccate, lo stupore dei selezionatori che non vogliono soprese … la morte lenta e dolorosa di un’esistenza, semplice, banale: e per questo autentica. Un ritratto, nella fiamma che elimina ma crea, col volto di Eraclito e il culo di un donnone che luccica in una strada notturna, dipinta, di una Roma che vive solo nelle periferie senza turismo. Un mondo, piegato dal peso della grazia, dal senso di un Cristo che alberga sia nei ritiri spirituali di Peppe, che nei bicchieri di troppo della sua stessa disoccupazione: un peso onesto, e sopportabile – come una madre che, incessantemente, guarda negli occhi un figlio perso a se stesso e chiede, con pudore, “come stai? … bene?: ma sicuro, si, che mi dici la verità?”. Un libro, bello, anzi, bellissimo questo di Raimo che può essere capito, forse, solo da chi vive la vita con gli occhi di un Giuseppe qualunque: immerso in un tempo che fa finta di muoversi restando fermo, tra gli anni Zero che timidamente se ne vanno tra le ceneri di due torri americane, e le passioni che si sciolgono, come attraversate da una fiamma, alla luce delle scelte utili, produttive … spendibili. Il racconto di una crisi, questo che si finge fiction, che riguarda la vita emotiva di ogni uomo pronto ad ancorarsi alla prima carezza inaspettata. Una volvo in cortile, tra la neve finlandese, coi bambini che giocano tra la luce perenne filtrata da tapparelle invisibili: un’attesa. Ecco cos’è la vita, un’attesa (in)finita: una relazione a due posti in cui, uno dei due, rimarrà vacante in eterno.
10 Ottobre 2012