(questo post è stato scritto a 4 mani con Renzo Gorini)
È ancora presto per dare un giudizio ponderato sull’onda di manifestazioni che da oltre dieci giorni agita il Brasile, riempiendo le piazze delle sue metropoli da nord a sud di quell’immenso paese-continente. Tuttavia, mentre la protesta si allarga e fa purtroppo registrare la prima vittima (un manifestante investito da un’auto a Ribeirão Preto, nello stato di San Paolo), quando è ormai chiaro che il pretesto iniziale (l’aumento delle tariffe degli autobus) era appunto solo un pretesto (la giornata di maggior mobilitazione è stata ieri, dopo il ritiro degli aumenti a San Paolo e Rio), qualche riflessione si può avanzare.
A noi pare che vi siano alcune innegabili analogie fra le manifestazioni di massa di questi giorni a San Paolo, Rio e Istanbul e quelle del Sessantotto in occidente, in particolare in Italia. Oggi come allora si tratta di paesi nella fase calante di un progresso economico senza precedenti.
Al termine degli anni 60 i giovani studenti che per effetto del boom economico frequentavano in massa le Università, fino ad allora privilegio di pochi, si resero conto che lo sviluppo impetuoso li aveva illusi di un progresso illimitato e di godere dei privilegi di chi li aveva preceduti. Scoprirono invece che il mercato del lavoro non era pronto per accettare laureati formati con le vecchie logiche e che i servizi pubblici e la scuola non funzionavano. Ma soprattutto scoprirono di vivere in una società bigotta e piena di tabù. Erano gli anni in cui un ragazzo e una ragazza, anche se maggiorenni, non potevano andare in albergo nella stessa camera perché non avevano il certificato di matrimonio. Non si poteva divorziare e la condizione della donna nel lavoro era marginale.
All’Università, come in tutti gli ambiti sociali, vigeva un clima di repressione, autoritarismo e conformismo, che in questi giorni vediamo ripetersi nelle violenze della polizia in entrambi i paesi di cui parliamo.
Il contesto in cui il movimento scoppiò vedeva una classe operaia in regressione economica e sociale, ma nella prima fase le vere parole d’ordine del movimento studentesco erano quelle della lotta alla repressione, della rivoluzione sessuale e dei problemi esistenziali. I riferimenti erano Wilhelm Reich e Herbert Marcuse.
In Italia, dopo le bombe di piazza Fontana il 12 dicembre del 1969 il movimento interiorizzò la logica del complotto, prese una piega più politica e i riferimenti, più che Marx, troppo difficile da leggere, divennero Lenin (Lotta Comunista), Stalin (Movimento studentesco della Statale o gruppo Capanna come lo chiamavano gli altri) e Mao Tze Tung (Servire il Popolo). Oppure sorsero gruppi spontaneisti e eversivi come Lotta Continua e Potere Operaio.
Il sogno di cambiare il mondo si avverò solo nella componente esistenziale. Su questo piano la differenza fra l’Italia che entrava negli anni 60 a quella degli anni 70 fu abissale, nella musica, nelle arti, nei costumi.
Sul piano politico il risultato fu un fallimento, come lo furono tutte le sommosse che seguirono la rivoluzione francese nell’800 e nel 900, con sbocco finale nell’eversione e nel terrorismo.
Ci pare allora (pur con tutti i caveat che paragoni di questo tipo richiedono) che qualcosa di simile stia succedendo in Brasile e in Turchia. Questi paesi escono da una fase di sviluppo economico mai visto nella loro storia, ma hanno le strutture di base ancora legate al potere oligarchico. I giovani che hanno avuto accesso alla scuola e ai consumi di massa credevano di avere conquistato il benessere che avevano i pochi privilegiati della società elitaria, ma quei paesi non hanno adeguato a sufficienza il loro mercato del lavoro e il loro modello di convivenza sociale.
Se restringiamo la prospettiva al Brasile (perché è evidente che in Turchia la componente di reazione all’integralismo di Erdogan e del suo partito gioca un ruolo chiave, che è estraneo alle dinamiche brasiliane e a quanto avvenne quarant’anni fa in Occidente), ci accorgiamo che quel paese ha vissuto per lunga parte della sua storia una continua tensione tra stato democratico (o che ambiva ad essere tale) e società oligarchica.
Il grande sviluppo degli ultimi anni (economico in primis, ma anche istituzionale) pone conflitti di crescita, legati alle aspettative crescenti che esso ha suscitato in larghi strati della popolazione.
Negli ultimi anni è accaduto sì che milioni di persone (almeno 30 milioni, secondo dati di comune dominio) siano entrati nella classe media, ma lo hanno fatto più da consumatori che da cittadini: sotto il profilo dell’estensione dei diritti (sociali ed economici, se non propriamente politici) molto resta da fare.
In tutta la storia del Brasile (e sotto questo profilo i due “padri” del Brasile contemporaneo, Fernando Henrique Cardoso e Lula, non hanno fatto eccezione) il sistema politico si è retto su forme peculiari di clientelismo, per sfuggire alle quali è sorta negli ultimi tempi una domanda moderna di diritti, che costituisce una sfida enorme per il modello di convivenza del paese.
Su queste riflessioni, si innesta una nota di ottimismo, derivante dal fatto che storicamente i leader brasiliani (tutti, senza eccezioni), che pure di norma sono investiti del loro potere al di sopra, e quasi a prescindere dai partiti, istituzioni che in Brasile non hanno mai rivestito troppa rilevanza, hanno sempre esercitato stili di leadership non confrontativi, che cioè salvo rare eccezioni non si sono mai mossi in senso anti-istituzionale, prendendo derive populiste distruttive come è invece è spesso accaduto in altri paesi dell’America Latina.
A partire dal ritorno alla democrazia del 1985, tutte le crisi, anche quelle più profonde e potenzialmente destrutturanti (ricordiamo gli anni dell’iperinflazione, del default sul debito estero, dell’impeachment di Fernando Collor) si sono svolte e sono state risolte nella cornice istituzionale data.
Sotto questo profilo, c’è da sperare che l’onda di aspettative e ambizioni del nuovo Brasile che in questi giorni scende in piazza non vada incontro alle frustrazioni e alle delusioni che sono invece toccate ai manifestanti del ’68 a casa nostra e in altri paesi occidentali.
(nella foto, Avenida Presidente Vargas, nel centro di Rio de Janeiro, è invasa dai manifestanti)
@diegocorrado @rengorini
Diego Corrado è autore di BRASILE SENZA MASCHERE. POLITICA, ECONOMIA E SOCIETA’ FUORI DAI LUOGHI COMUNI, Università Bocconi Editore