L’onesto JagoIl nulla dietro il rumore: Shakespeare crolla a Verona

Immaginate una "fantasia", per usare un eufemismo, che frulla assieme, così a caso, una carmencita con una geisha, i pirati coi gitani, compare Turiddu e il corsaro nero, ventagli e coltellacci, l...

Immaginate una “fantasia”, per usare un eufemismo, che frulla assieme, così a caso, una carmencita con una geisha, i pirati coi gitani, compare Turiddu e il corsaro nero, ventagli e coltellacci, la tarantella con Bizet, gli zingari con guerre stellari, Bregovic e Modugno. E forse avrete una mezza idea dell’accozzaglia da trovarobato che faceva da sfondo a una improponibile edizione di Molto rumore per nulla, al debutto al Teatro Romano di Verona, con la regia – se così si può dire – di Giancarlo Sepe. Il quale, come si sa, è un maestro che ha realizzato allestimenti raffinati: senza arrivare all’eccesso di chi lo considera pari a Wilson o Brook, Giancarlo Sepe ha dalla sua tanto lavoro, con punte di eccellenza. Un errore capita a tutti, per carità, ma questo progetto ha delle ambizioni da grande evento, e dunque dobbiamo farci i conti. Non si capisce, allora, da che sonno della ragione sia generato questo mostro. L’operazione, evidentemente studiata a tavolino, sciorina in cartellone i nomi glamour di due “star” sospese tra cinema e tv. E dobbiamo farli subito:

lei, la Beatrice shakespeariana, qui è Francesca Inaudi: bella come il sole, affascinante come un fiore selvaggio che rompe la roccia, combatte strenuamente. Ha il ruolo – scomodo ma divertente – della antipatica e arguta, che poi capitola per amore. Lo sostiene con dignità, nonostante sembri del tutto abbandonata a se stessa. Accanto a Inaudi, nel ruolo di Benedetto, troviamo il bel Daniele Liotti, che solca la scena a grandi passi come fosse Pippo Baudo, poi si piazza al centro e dice quel che deve dire. Fa del suo personaggio, notoriamente astuto e combattivo, un bambacione tardo romantico, un tronista anche un po’ pavido. E con loro una corte dei miracoli, un mondo ingenuo che non si capisce da dove venga e sopratutto perché reciti Shakespeare. Una risposta possibile viene dal fatto che rimangono tutti insieme più o meno sempre in scena, seduti ai bordi di una specie di quadrato-ring, tipo “metateatralità” manierata, entrando e uscendo dal personaggio. Ma poi, a ben vedere, non è nemmeno così: dunque stanno là, tra gran sventolare di ventagli, poi si alzano e la dicono. Dicono cosa?
L’adattamento, dello stesso Sepe, vuole essere spigliato e moderno, e la regia – se così vogliamo dire – non paga del patchwork colorato, costringe i personaggi a parlare vari dialetti o lingue, ma non ho capito in base a quale criterio. Certo, la commedia originale mette in gioco personaggi che hanno provenienze geografiche diverse, e la vicenda si svolge a Messina (come ricorda il retro di un mega cartellone cadente che costituisce e chiude la scenografia, manco fosse il Moulin Rouge di Lurhmann), ma qui ci troviamo una Ero che parla mezzo bolognese e mezzo romano, una Beatrice che parla veneto ( e fa ridere il pubblico quando dice: “ma va in mona”, vi potete immaginare l’imbarazzo del critico), un principe che parla un po’ come Banderas quando fa il Mulino Bianco un po’ come un borghese della buona provincia italiana. C’è spazio anche per il napoletano di Leonato (ma non sarebbe messinese?), per lo slavo inframezzato, perché no? a un pizzico di pugliese, e pure per un po’ di romanesco. Così come capita, in base all’estro del momento.
Il tutto, infatti, in quella che potrebbe essere una commedia frizzantina, dolce e amara, procede farraginosamente, con affanno. Inutilmente appiattito, poi, da una amplificazione che spegne toni e sfumature, mortificando ulteriormente un gruppo di attori – anche con buone individualità, che non citiamo per rispetto – in cui spicca per impaccio e inascoltabilità un figlio d’arte, anche lui televisivo, dal cognome troppo importante per le sue modeste doti. E quando il frate shakesperiano appare come un Pope ortodosso ma vestito tigrato, “Giove pluvio” – come diceva Gassman ne I soliti ignoti – ha dato modo al pubblico di fuggire mentre quei poveri, là sul palco, continuavano a recitare. La faccenda dovrebbe essere in fretta archiviata, come il temporalone estivo che ha allagato Verona, ma siccome la rutilante operazione conta sui “grandi nomi” girerà anche in stagione. Si spera almeno che lo spettacolo venga rimesso in prova.

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