Per favore. Togliete di mano a questa gente computer, tablet e smartphone prima che succeda qualcosa di grosso, che qualcuno dichiari una guerra senza avvertirci prima. Sarà l’estate, la noia e forse anche la calura, ma la spirale di bassezze in cui ci stiamo avvitando dacché politicanti minori – specialmente leghisti – hanno scoperto un uso pseudopolitico dei social media, è davvero degno di nota. E rischia di divorare dal basso, da molto in basso, quel poco che resta delle nostre istituzioni.
Un breve prontuario per chi non avesse presenti le ultime avventure mediologiche dei nostri eroi:
- 2 giugno, su Facebook il consigliere leghista Luca Dordolo commenta con un omaggio alla multiculturalità l’omicidio di un’indiana. L’assassino è il marito, che ha poi gettato il cadavere nel Po: “Maledetto, inquinare così il nostro sacro fiume…Vorrei vedere io se andassimo a sgozzare mucche e maiali o defecare nel Gange…”.
- 13 giugno, la stilnovista e consigliera della Lega Dolores Valandro, poi condannata a 13 mesi di reclusione, scrive su Facebook a proposito della Kyenge: “Ma mai nessuno che se la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato? Vergogna!”.
- 20 giugno, un’altra consigliera leghista, Anna Giulia Giovacchini, commenta così su Facebook – da ambientalista nuda e pura – l’annegamento degli immigrati in mare: “Quindi le gabbie dei tonni non solo uccidono i poveri pesci, ma danneggiano direttamente anche gli italiani, vegetariani o onnivori! Un motivo in più per non mangiare tonno!”.
- 21 giugno, un giorno dopo appena. Ancora una consigliera leghista, Rossella Colombo, in replica a un utente che farneticava di un rogo di immigrati, chiosa: “Attenzione, però, ad appiccare roghi, perché il loro fumo inquina, essendo delle grandissime merde”.
- A tenere alto il fronte a sinistra ci pensa poi il recentissimo Angelo Romano Garbin, di SeL, che il 20 luglio, a proposito della condanna della Valandro scrive su Facebook: “E adesso mollate la Valandro con venti negri”.
- (Ma non potremmo certo dimenticare il caposcuola Stefano Venturi, sempre della Lega, che già il 20 maggio del 2012 dichiarava su Facebook: “Terremoto nel Nord Italia… Ci scusiamo per i disagi, ma la Padania si sta staccando, la prossima volta faremo più piano…”)
Scavando all’indietro nel tempo potremmo probabilmente proseguire l’elenco per molte pagine.
Ma cosa avviene? Il problema sta forse nel mezzo utilizzato per la comunicazione, più che nei contenuti in sé e per sé.
Va rilevato, in primo luogo, che la trama mediologica che i social network hanno intessuto si basa su una sovrapposizione tra pubblico e privato del tutto inedita, estranea ai mezzi tradizionali. Nei new media ogni comunicazione risulta infatti intrinsecamente privata – generata, ovvero, in uno spazio informale, circoscritta da un legame sociale e prodotta a titolo esclusivamente personale – ma al tempo stesso pubblica, giacché passibile di essere estrapolata in qualsiasi momento dal suo contesto nativo ed essere inclusa in un discorso politico e sociale a cui partecipa l’intera collettività.
Il web nella versione social è così un medium che – piuttosto che orizzontalizzare direttamente la comunicazione, come spesso si ritiene – rende accessibile a tutti l’approccio top-down dei media tradizionali, fino a generare una comunicazione di tipo top-top e down-down, che piazza ogni interlocutore sul medesimo piano comunicativo degli altri. Si annulla così la ragion d’essere stessa di una distinzione tra un approccio frontale – orizzontale e riservato – e una comunicazione verticale, pubblica, qual è quella “classica”.
Tutto al contrario, la cultura del nostro paese – e in particolar modo quella politica, che per vent’anni si è strutturata in funzione della presenza iper-televisiva di Berlusconi (e che già prima non brillava per interattività) – risulta imbevuta di una mediologia istituzionalizzante, portata per sua disposizione a isolare una sfera pubblica ben distinta (e ben distante) da quella privata. Un modello, quindi, che ragiona in termini del tutto estranei all’approccio trasversale dei new media, alla portata paradossale dell’interrogativo-chiave della comunicazione 2.0: “a cosa stai pensando?”.
Una domanda, questa, che – proprio giacché posta in forma diretta, privata, sebbene effettuata in vista di una comunicazione pubblica – assegna in partenza al processo mediatico una dimensione ambiguamente confidenziale, da cui si resta facilmente inebetiti con conseguenze comunicative che sfumano dal grottesco al pericoloso. E non sarà arduo rilevare come la comprensione di questo nuovo approccio sia sfuggita alla maggioranza dei politici nostrani, che – con rare eccezioni tra i più giovani – continuano a utilizzare internet senza curarsi dei vantaggi e dei rischi della sua natura interattiva.
In tal modo gli “epic fail” comunicativi di assessori, consiglieri e analoghe forme di vita, ci rivelano che il web ha sostanzialmente standardizzato quel cortocircuito comunicativo che nei media classici conosciamo come fuorionda: comunicare in pubblico senza esserne consapevoli.
Rimbalzati tra un ambiente chiuso e informale – nel quale immaginano di comunicare a titolo esclusivamente personale – e la situazione invece pubblica nella quale il messaggio è immediatamente catapultato, i protagonisti delle cronache politiche ci rivelano insomma se stessi e nient’altro.
E molto, molto spesso hanno cose terrificanti da dire.
Simone Guidi
@twsguidi