Nel rugby, la palla non è rotonda ma ovale. Non rotola. Anzi, ogni volta che tocca terra, riproduce imprevedibili rimbalzi, difficili da anticipare per qualsiasi giocatore, perfino il più talentuoso. Anche l’uguaglianza – uno dei termini-concetto più usati e abusati della cultura occidentale – è come la ‘palla ovale’. Il presente e (soprattutto) il futuro di questo lemma sembrano ormai incontrollabili.
Rugby e politica sono due elementi apparentemente lontani, ma – a ben guardare – non così distanti l’uno dall’altro. A testimoniarlo è l’ultimo libro di Vittorio Emanuele Parsi, La fine dell’uguaglianza. Come la crisi economica sta distruggendo il primo valore della nostra democrazia (Mondadori, Milano 2012, pp. 240, 17,50 euro). L’autore, infatti, non è soltanto professore di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore ed editorialista di Avvenire e Il Sole 24 ore, ma anche trequarti centro negli Old del Rugby Monza.
Il volume affronta il problematico rapporto tra libertà e uguaglianza nella convinzione che non vi sia alcuna «necessaria opposizione» tra questi due principi. Piuttosto la loro relazione deve essere «dialettica» e mai alterata o sbilanciata, soprattutto perché «senza uguaglianza la libertà si chiama privilegio». Riuscendo a rendere accessibile al grande pubblico la letteratura scientifica utilizzata, Parsi ripercorre la traiettoria storica e geopolitica della relazione tra mercato e democrazia. Politica ed economia sono così i due ambiti che la riflessione dell’autore analizza accuratamente nel tentativo di presentare la persistente validità di quel «canone occidentale» che ha determinato il successo (ormai, sempre più sfidato da fattori endogeni ed esogeni) della nostra civiltà all’interno del sistema internazionale.
In La fine dell’uguaglianza c’è una ricostruzione del percorso accidentato e non lineare che il concetto di uguaglianza – sia come ideale, sia come prassi – ha compiuto negli Stati Uniti e in Europa. Ma la riflessione guarda anche alla Germania (alfiere della disuguaglianza degli Stati nel Vecchio continente), all’Italia (dove i difetti della democrazia e del mercato non si alleviano, ma vengono cristallizzati) e soprattutto alla Cina. Un Paese, quest’ultimo, che propone – con la sua rapida, forse insostenibile, crescita economica – un canone inverso rispetto a quello occidentale, dove la disuguaglianza è addirittura la regola.
Comparando la crisi del ’29 e quella attuale, Parsi sottolinea le forti differenze tra i due eventi, molto spesso (erroneamente) evocati in parallelo. Mentre la prima è stata un momento di rilancio verso l’affermazione del «canone occidentale», la seconda rischia infatti di rafforzare definitivamente quel processo di deoccidentalizzazione del mondo provocato dalla continua riarticolazione (o disarticolazione) del sistema internazionale iniziata nel 1989.
Affermando la necessità che la democrazia riesca a riequilibrare la propria condizione di svantaggio rispetto all’economia, l’autore invita pertanto la politica a riacquisire «lungimiranza» e «sicurezza». Soltanto così gli Stati potranno evitare di cadere nel populismo e, al tempo stesso, contrastare quella «solitudine» del mercato che «crea diseguaglianza» tra i cittadini e le nazioni.
Insomma, se il mercato crea disuguaglianza e la democrazia genera uguaglianza, la loro forza non può che risiedere nella creativa diversità e nell’imprescindibile complementarietà «dei principi di fondo cui rispondono». «Esattamente», osserva Parsi, «come in una squadra di rugby», perché «è il fatto di avere avanti (giocatori che compongono la mischia) massicci e pesanti e trequarti veloci nella corsa e aggressivi nel placcaggio» che le permette di vincere. Soltanto mantenendo questo equilibrio tra democrazia e mercato, il «canone occidentale» su cui è progredita la modernità politica potrà vincere quella sfida dell’uguaglianza che la crisi economica e l’ascesa di altri attori internazionali stanno minando alle fondamenta.
Twitter: @LucaG_Castellin