Ci vorrebbe una recensione per lo spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Ci vorrebbe davvero una recensione seria, che uno si mette là, la scrive e dice: ecco, ho fatto una bella recensione. Insomma, un commento adeguato, autorevole, di quelli che, poi, bisogna tenerne conto. Però come faccio? Poi io, figurati.
Sono giorni che me lo chiedo. Insomma, ho studiato, li conosco bene, ma ci sono tutte ste idee che frullano per la testa, che poi, quando vai a scriverle non viene fuori niente.
Cosa scrivo? Come scrivo dopo aver visto “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”, fatto da Deflrorian e Tagliarini anche in scena con Valentino Villa e Monica Piseddu, al teatro Palladium stracolmo, nell’ambito dell’ottimo e gratificante cartellone del Romaeuropa Festival? Facciamo una ipotesi: io scrivo, e poi rileggo e mi dico “ma che ho scritto”? Allora, capite, no? Servirebbe uno scrivere serio, articolato, e non so nemmeno se ci riuscirei, a dire le cose come stanno. Insomma, qui c’è un fatto importante: quattro attori in scena, di scuole diverse, che si incontrano per parlare di quattro tragiche vicende umane, messe in romanzo dall’ottimo giallista Petros Markaris: quattro pensionate greche che, affrante dalla crisi economica, decidono di suicidarsi. Allora, al Palladium, là sulla scena vuota, prendono quel piccolo fatto di cronaca e con un tavolino, quattro sedie, un neon – a rendere tutto più asettico, freddo, tagliente come un obitorio – i due attori e le due attrici dicono che non ce la fanno, che non possono fare uno spettacolo su un gesto tanto tragico. Appena entrano, una di loro – la Deflorian – si stacca dal gruppo e si rivolge al pubblico, scusandosi perché e avvisando che non ci sarà spettacolo. Niente da fare: dicono “no”. Allora, dico, se loro non ce la fanno, come posso farcela io? È bello dire “no”, no? No allo spettacolo, no alla rappresentazione, no alle storie.
Come potrei, insomma, parlare di uno spettacolo che non c’è? A che titolo? Non sono mica adatto.
Certo, in realtà piano piano lo spettacolo si fa, dura anche un’ora, ed è anche bello. Ma sembra procedere senza procedere, insomma un po’ così, tra dubbi, ripensamenti, mezze parole, situazioni sospese, incertezze. E per loro no, non è uno spettacolo: loro, gli attori, non sono là in quanto attori. Anzi sono là per dire che non possono essere attori, che non riescono, che si fermano, pur avendo accumulato tanto materiale, tanto studio, tante sequenze. E parlano di questo non parlare, ossia del non fare teatro nell’atto stesso di fare teatro. Che sarebbe in sostanza come non scrivere una recensione scrivendola, che poi è la cosa che qui si sta dipanando indipendentemente da me. Quasi che, insomma, il fatto stesso che quei quattro siano saliti sul palcoscenico, si espongano, recitino dei testi, autorizzi il critico, un critico qualunque – tipo me, diciamo – a discettare, a analizzare, a giudicare. In realtà è tutto un po’ più delicato.
Mettiamo, ad esempio, che io scriva: “è un bello spettacolo”. Ebbene, farei un errore di valutazione, di leggerezza, perché la faccenda, scusate, è più seria. Mica la puoi liquidare così. Che poi penso che loro pensano che io ho pensato che quello è uno spettacolo e io faccio il critico come al solito. Via su. E anche tu, lettore, che leggi queste righe e dici: ma che sta a di’?
Insomma, quello è un non-spettacolo, non ci sono personaggi, ma persone che parlano come se fossero personaggi, e lo spettatore deve sapere bene che personaggi non sono. Si chiamano per nome tra loro! Mica dicono “Amleto” e “Ofelia”. Figurati: sono anni, ormai, che è scomparso il personaggio!
E poi che spettacolo sarebbe uno dove continuamente gli attori stessi parlano delle loro vite, e poi di tanto in tanto – ma costantemente, passandosi un nascosto testimone – evocano quella storia là, quella delle quattro pensionate: ne evocano la miseria, la dignità, la tenerezza, la paura, la solitudine, l’amicizia, la vecchiaia, il freddo, la commozione.
No, che c’entra: quelle sarebbero tecniche teatrali, sulle quali io, in quanto critico, potrei anche ragionare. Al contrario, qui, questi discorsi sono proprio discorsi come quelli veri, precisi, anche lunghi, come li farebbe ciascuno di noi a casa, con gli amici. Oddio, non proprio: perché poi a casa non è che parli davvero davvero in quel modo. Insomma, è “teatro”, ma è vero; oppure è “vita”, però è finzione. Che pure Pirandello, poi, ci aveva un po’ provato, no? Ma lui, là, parlava di personaggi che volevano diventare persone. E qui, invece, ci sono persone che non vogliono diventare personaggi. Chi parla più di personaggi, al giorno d’oggi?
Allora anche una recensione che non è una recensione, resta un po’ appesa a parole che girano a vuoto, scritte al Mac, non buttate su un foglio, ma su uno schermo, e composte spingendo le dita su tastini neri con letterine stampate sopra, mica con la stilografica. O no? Allo stesso modo, Monica Piseddu, che è bravissima, non fa quel monologo. E neppure Valentino Villa – che conoscevamo come bravo regista e torna a recitare dopo anni – neppure lui, dicevo, in realtà recita quella straziante evocazione del suicidio davanti alla televisione. Antonio Tagliarini, che invece puntualizza e cavilla, poi non sparisce nel buio, lasciando il vuoto tutto attorno con un bell’effetto, perché non è un effetto, è un “gesto”. E Daria Deflorian, che è una delle più intense interpreti italiane, non sta là a comporre, tassello dopo tassello, una maschera tragica. No. Ci dicono che fanno altro. Ce lo dicono e ce lo ripetono. Allora a quel punto, a rigor di logica, non ci sarebbe bisogno nemmeno dei saluti e degli appalusi, che invece pensa tu ci sono stati, anche se non tutti, in platea, erano convinti appieno. Che ho sentito uno, in platea, a fine spettacolo, dire serio serio: “io questo teatro di parola non è che lo capisco tanto…”.
E io, che non la volevo scrivere, questa recensione, però poi l’ho scritta.