«Ci sono cose che si possono buttare. Per tutto il resto c’è l’arte contemporanea» recitava un noto slogan pubblicitario. O forse no, ma non è questo il punto. Il punto è che, spesso, il confine tra arte contemporanea e spazzatura è sottile, molto sottile. Così sottile che in quel di Bari – ma non è certo la prima volta – una zelante addetta alle pulizie della mostra Display Mediating Landscape ha dato un’occhiatina alla opere di tal Nicola Gobbetto e, dopo aver esclamato «Sorbole! Ma cosa è tutta questa immondizia?», ha raccolto baracca, burattini, carta e cartone e ha chiamato quelli della spazzatura per far rimuovere l’indesiderato materiale.
«Scandalo a corte!» gridarono gli intellettuali (o i presunti tali).
«Che barbarie! Che affronto! Che paurosa ignoranza! Come si fa a scambiare l’arte per pattume?» fecero eco gli snob (purtroppo non presunti tali).
Si fa, si fa, evidentemente si fa. E la solerte addetta alle pulizie non è sicuramente l’unica a pensare che certe opere di arte contemporanea siano più adatte a un bidone della spazzatura che alla una sala di un museo.
E poi perché non si può dire che un’installazione – giusto per fare un esempio e per parlare con proprietà – è brutta, se è obiettivamente una cagata pazzesca (cit.)? Inutile tirare in ballo astrusi concetti filosofici per giustificare l’esistenza di un’accozzaglia di roba messa insieme a caso in un momento di vuoto creativo; se una performance è scadente, è scadente punto e basta. In tutti gli ambiti.
Eppure, nel caso dell’arte contemporanea, è sempre – e inspiegabilmente – una questione di ignoranza di chi guarda e mai di inadeguatezza di chi produce. Dire che Moccia non è uno scrittore fa figo, ma dire che una mela in decomposizione appoggiata su un tavolino forse non è proprio un’opera d’arte, quello no, non si può.
«Ma come? Non hai letto la Metafisica del torsolo, di Sheidkjdi Pjajsnvji, filosofo russo morto suicida dopo aver scoperto che i semi delle mele non stanno in fila per tre col resto due? Se l’avessi fatto, ma certo è un testo difficile che non tutti possono capire, adesso sapresti che quel frutto marcio è una metafora dell’alienazione dell’artista nella società moderna».
«Eh no, mi manca. Però a casa ho un’imitazione dell’opera, sai? Mela renetta un po’ passa prima di diventare torta, collezione privata, febbraio 2014».
Ma sì, sì, lo so, sono solo una povera ignorantella e gli artisti – e i veri intenditori che di arte ne sanno – vedono cose che noi umani non possiamo immaginarci. Per me un tampax è solo un assorbente interno, per esempio, mentre per Joana Vasconcelos è il mattoncino ideale per costruire un imponente lampadario barocco. Lei, probabilmente, quando il regista le ha chiesto «La sai fare la ruota?», non ha pensato «La ruota? Proprio oggi che mi sono arrivate», ma ha risposto «Uè sbarbatello, ho appena usato ottocentoventisei scatole di tamponi per fare un lampadario, vuoi che non me ne sia avanzato uno per fare una ruota in tutta libertà?».
Il genio, si sa, è anche sregolatezza.
In foto, Duello proletario di Mauro Coduri e Paolo J. Masala, astri nascenti del panorama artistico nostrano. Nel senso di salame, ovviamente.
“Ho visto in un guanto abbandonato e in un boccale di legno il giusto incontro tra una società sempre più snob (i guanti) e quei diritti inalienabili (come il diritto all’acqua) ai quali, per quanto con la puzza sotto il naso, non possiamo rinunciare” (P.J.Masala)