Non aprite quelle porteLa triste storia del menefreghismo del giovane studente universitario

Questa è la storia di uno di noi, non necessariamente nato in via Gluck, ma iscrittosi, una volta maggiorenne e quindi teoricamente adulto, a quella che è considerata – a torto o a ragione – la cul...

Questa è la storia di uno di noi, non necessariamente nato in via Gluck, ma iscrittosi, una volta maggiorenne e quindi teoricamente adulto, a quella che è considerata – a torto o a ragione – la culla del sapere: l’università.
Questo giovane, ansioso di apprendere o forse solo parcheggiato temporaneamente nel tal ateneo da genitori ambiziosi, studia, segue le lezioni, si muove, fa cose, vede gente. E sporca.

A volte sporca così tanto che ci sono mattine in cui Caterina, la signora delle pulizie, apre la mia porta esasperata, entra e, mentre passa la bandiera, si sfoga così: «Ma è mai possibile? Dalle cinque e mezza alle otto e mezza per pulire la 201. Tre ore per un’aula, ti rendi conto? Lasciano in giro tutto, buttano le cose per terra, lasciano la spazzatura sui banchi, i cestini non sanno neanche cosa sono. Sporcano e basta. Non ti dico quello che troviamo».
Non lo voglio nemmeno sapere, a dire la verità. Preferisco vivere nel mio magico mondo fatato in cui i giovani tra i 19 e i 24 anni hanno abbastanza sale in zucca per sapere che, se si finisce un succo, non lo si lascia a sgocciolare sotto il banco, ma lo si mette nel cestino. Però – ahimè – questo mondo non esiste più.

Sì lo so, la maleducazione c’è sempre stata, non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, c’è l’effetto branco etc. etc., ma che il menefreghismo la faccia da padrone è, purtroppo, ormai un dato di fatto. E le bravate da scuola media, a vent’anni, dovrebbero essere ormai passato remoto.
Invece no.
Mi racconta sempre Caterina che ci sono certuni che trovano divertente spalmare la cacca – sì, esatto, la cacca – sul soffitto del bagno, forse per poter scrivere sul curriculum “la creatività è uno dei miei punti di forza”; oppure ci sono certi altri che amano togliersi le scarpe per lasciare un’impronta sul muro il più in alto possibile, perché sono giustamente ambiziosi; o, ancora, c’è chi crede che appiccicare mozziconi (tra l’altro di sigarette fumate dove non si potrebbe) sulle pareti per disegnare faccine sorridenti non sia maleducazione, ma arte moderna.

Va bene, sono vecchia e lamentosa, ma questo è quello che mi sono sentita rispondere da uno studente durante un laboratorio, studente a cui avevo chiesto gentilmente di non picchiare una bacchetta sul magnete dello strumento che stavamo usando: «Va beh, che mi frega se si rompe, tanto ci sarà l’assicurazione, no?».
E il tuo braccino, tesoro mio, quello è assicurato?

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