È vero: ancora non abbiamo sotto gli occhi ufficialmente i testi del disegno di legge delega e del decreto-legge in materia di riforma della PA annunciati da tempo dal Governo. Sapremo tutto molto presto, ma al momento ci muoviamo come fossimo in un romanzo di Dan Brown, vagliando bozze segrete vergate da Illuminati, interpretando simboli misteriosi e decrittando parole carpite qua e là. Se, tuttavia, quel che si è letto risponde anche in parte a quel che approderà in Parlamento, una qualche riflessione va fatta, in particolare in merito all’annosa questione della dirigenza in quota esterna. Il punto è noto: se nella pubblica amministrazione si diventa di norma dirigenti per concorso (e qui si entrerebbe in un campo minato dal quale per ora restiamo fuori), la legge prevede che una percentuale massima del 10% possa essere reclutata per chiamata diretta, fornendone esplicita motivazione, a favore di persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione. Insomma, se al politico di turno serve l’esperto che manca per conseguire obiettivi istituzionali, prima verifica se non abbia già quella professionalità dentro casa e, solo in caso negativo, procede a chiamata fiduciaria della persona, la quale avrà un contratto – a tempo determinato e con retribuzione maggiorata rispetto ad un dirigente di ruolo, a titolo di indennità – che arriverà a scadenza naturale, a dispetto del destino del nominante.
Ebbene, vanno segnalate due novità, le quali, se approvate, porteranno ad una sostanziale mutazione dell’istituto. La prima: verrebbe meno l’obbligo di verificare se non esista di già un simile esperto nell’amministrazione. Nomino, quindi, senza sapere di quali competenze il Ministero, l’ente o la Regione sia già eventualmente in possesso. La seconda: il nominato andrebbe a casa quando va a casa il nominante. Occhio: la cosa sembrerebbe positiva, vero? L’esterno segue il destino del politico e non resta, come è spesso accaduto, a tempo indefinito dentro l’Amministrazione. A ben riflettere, tuttavia, è evidente che legare in modo indissolubile la vita professionale del dirigente esterno al suo politico di riferimento finisce per caratterizzare il primo come emanazione piena e diretta del secondo, confermando una volta per tutte gli aspetti degenerativi di una norma che nel tempo ha spesso dato più che discutibili esempi concreti. Se poi, inoltre, aggiungiamo che la previa ricerca interna sulle professionalità non è necessaria, è palese la natura totalmente discrezionale e fiduciaria della nomina. Da esperto, possibile sodale, passiamo al sodale, possibile esperto. Vanno cambiate le modalità con le quali si tengono i concorsi? Sì. Va migliorato il sistema di valutazione della dirigenza? Certamente. Serve più sostanza e meno forma? Magari. Possono servire, in via temporanea ed eccezionale, competenze al momento non presenti nelle amministrazioni? Sì, ad alcune condizioni. Ma è concepibile che possano verificarsi situazioni nelle quali si arrivi al licenziamento di un dirigente vincitore di concorso perché non gli si conferisce un incarico nel nuovo, istituendo ruolo unico, e rimanga alla scrivania un dirigente chiamato – diciamo così – ad capocchiam? Insomma, se tante cose abbisognano di essere cambiate nella PA, perché cambiarle in peggio?