Mentre il Maracanaço (la sconfitta contro l’Uruguay nella finale della Coppa del 1950, davanti ai 200mila del Maracanã di allora) fu subito mito e leggenda, la disfatta del Brasile contro la Germania al Mineirão sarà sempre e solo cronaca, perché centinaia di milioni di persone in tutto il mondo l’hanno vista in diretta. Può piacerci o meno, ma modernità e globalizzazione spogliano dell’aurea mitica eventi che un tempo sarebbero passati alla storia, plasmando nel bene e nel male l’immaginario collettivo di intere generazioni. Oggi al massimo quegli stessi eventi sono oggetto di autoironia sulle reti sociali e titoli irriverenti sui giornali nazionali, come “Salsichaço” (da salsicha, wurstel, ognuno traduca per sé), la geniale apertura dell’Agora, tabloid di San Paolo, l’indomani della partita. Cogliere le conseguenze di eventi che catalizzano l’attenzione del mondo intero richiede quindi un’analisi meno superficiale delle molte che abbiamo ascoltato in queste settimane.
Tra i legati della Coppa 2014, resterà infatti la smentita contundente di due stereotipi, l’incapacità organizzativa del Brasile e la bellezza del suo calcio. Un insegnamento per chi ancora si ostina a guardare a un mondo globalizzato con le lenti appannate da vecchi cliché, un invito ad andare oltre schemi consolidati. E andando oltre si scopre che il grande vincitore del Mondiale dei Mondiali, come l’ha battezzato da subito la propaganda di Dilma Rousseff, che alle presidenziali di ottobre è candidata a una difficile rielezione, è il popolo brasiliano. Non ovviamente dal punto di vista calcistico, e neanche da quello meramente economico. Nonostante la propaganda tenti di “venderli” come grandi opportunità di crescita, i megaeventi, quando non si rivelano un bagno di sangue finanziario, raramente portano grandi benefici materiali al paese ospitante. Il ritorno principale che queste kermesse possono offrire si pone per lo più su un piano meramente simbolico, ed è in questo campo che il Brasile ha vinto.
Dopo Jim O’Neill, l’economista di Goldman Sachs che creando l’acronimo BRIC nel 2001 collocò il paese nella mappa mentale di tutti noi non più come paese del samba, o del carnevale, o altre amenità folcloristiche simili, ma come potenza economica emergente, la persona che più ha contribuito al processo di rebranding in cui il governo brasiliano è impegnato da anni è stato Sepp Blatter. Il discusso capo della Fifa, organizzazione certo non esemplare per trasparenza, ha perseguito in modo sfacciato i propri interessi, portando la Coppa nel paese che del calcio è la culla di adozione. Ha negoziato con il governo di Lula prima, della sua pupilla Dilma poi, benefici che mai aveva ottenuto in altri paesi organizzatori, che hanno garantito alla entità da lui diretta profitti record. Per ospitare la Coppa, il Brasile ha dovuto modificare la propria legislazione, costruire impianti faraonici in lande remote del paese, accettare tutti i diktat della cupola del calcio mondiale. Ma in cambio ha ottenuto di stare sotto i riflettori del mondo per un mese e più, offrendo al mondo ciò che di meglio aveva da dare. I risultati di questa esposizione sono stati registrati da un sondaggio divulgato nei giorni scorsi dalla Folha de S. Paulo, maggiore quotidiano del paese. Essi dicono che il gradimento della manifestazione ha toccato livelli record, l’83% dei visitatori stranieri ha giudicato buona o ottima l’organizzazione. Un paese che storicamente è trattato con ampie dosi di paternalismo, quando si tratta di comparazioni internazionali, e che a sua volta soffre da sempre di un robusto complesso di inferiorità, radicato tanto nelle élites esterofile che nella sua sterminata classe media, abituata a considerare positivo tutto ciò che viene da fuori, ha offerto un’immagine inaspettata di sé. Ha così smentito legioni di profeti di sventura, che dentro e fuori dal paese predicevano catastrofi sotto tutti i punti di vista in occasione nei mondiali: “imagina na Copa”, figurati durante la Coppa, è stato negli ultimi anni il tormentone a corollario di tutto ciò che non funzionava in periodi “normali”, il sottinteso era “potrà solo andare peggio”. Durante la Coppa invece è andato tutto bene, e non importa oggi che ciò sia dovuto allo sforzo eccezionale del governo federale, che nei mesi precedenti la partita inaugurale ha messo in campo una task force per porre rimedio ai ritardi più gravi. Il risultato, scrive Juca Kfouri, uno dei più noti giornalisti sportivi, è stato quello di vincere in extremis e per 6-5 una partita che si perdeva 4-0. Ma in certi casi ciò che conta è vincere, come nello sport, dove si ricorderà per sempre il trionfo della Germania, ancorché ottenuto al 113° minuto di una tesissima finale che ben avrebbe potuto premiare una solida e arcigna Argentina.
E quando si tratta della manifestazione più importante nello sport che da molti decenni trascende il suo specifico per assurgere a fenomeno simbolo della modernità, vincere per il Brasile ha significato confermarsi all’altezza dello status conquistato in anni recenti eppure già in discussione, causa il rallentamento della crescita e il conseguente diffondersi di ansia e incertezza sul futuro che nelle proteste del giugno 2013 hanno avuto una così rumorosa espressione.
La prova era tanto più difficile perché il Brasile che ha accolto il Mondiale, e tra due anni ospiterà a Rio le Olimpiadi, non era lo stesso che si era aggiudicato i due eventi. Ma la Coppa 2014 dimostra che la storia non torna indietro. Il Brasile è entrato nel consesso delle grandi nazioni, e pur con i suoi limiti ha affermato con forza che è determinato a restarci, in quel ristretto gruppo, e di avere le carte in regola per farlo.
“Pena que está acabando”, peccato stia finendo, recitava il cartellone di un tifoso brasiliano domenica al Maracanã, nonostante l’umiliazione patita dalla Seleção pochi giorni prima. Il Brasile forse non sarà più il pais do futebol, ma pochi hanno colto che in un mondo competitivo e globalizzato questa potrebbe non essere la tragedia che i cronisti hanno provato a raccontarci, senza neanche accorgersi di fare il verso fuori tempo massimo ai loro omologhi del 1950. Abituato a trovare nel calcio il collante di un’identità in passato fragile fino all’evanescenza, il Brasile con la Coppa di casa si è liberato da una gabbia che era diventata troppo stretta per le sue ambizioni globali.
(Una versione ridotta di questo articolo, a firma Diego Corrado e Luciano Mondellini, coautori di Maledetta Seleção. Storia del Brasile dal 1950 al 2014 attraverso le gesta della nazionale di calcio, in questi giorni in edicola per Milano Finanza, è stata pubblicata da tale quotidiano sabato 18 luglio, a p. 20; Diego Corrado è inoltre autore di Brasile senza maschere. Politica, economia e società fuori dai luoghi comuni, Uiversità Bocconi Editore, 2013)