Oggi si chiude la Biennale teatro 2014, dove ho tenuto un workshop di critica teatrale. Con un gruppo di giovani e giovanissimi critici abbiamo accompagnato la manifestazione veneziana (il frutto del lavoro è sul blog biennaletheatrecommunity.wordpress.com). Quella che segue è una mia riflessione a partire da alcuni spunti emersi dalla Biennale diretta da Alex Rigola.
Non bisognerebbe scriverli di notte, certi articoli. Magari guardando la luna piena in cielo, dal vaporetto, mentre un po’ di vento finalmente porta via l’afa della giornata.
Tanto meno bisognerebbe scriverli dopo aver bevuto un po’ di rosso, brindando e festeggiando, e tenendo in gola quelle lacrime da sbronza che sistematicamente arrivano.
Perché la fine di un festival, di qualsiasi festival, lascia sempre un po’ di magone, dentro. E allora si diventa languidi, e si resta come sorpresi, a guardarsi intorno.
Sorpresi a guardare Venezia forse per l’ultima volta, con il suo carico di ricordi, di emozioni: guardare quei colori tenui, quelle curve morbide, quelle luci fioche. E ripensare ai volti, conosciuti, addirittura amati, che poi, da domani, di colpo, non vedi più.
La cosa buffa, di questa Biennale 2014, che si chiude oggi, è che seppure a far da richiamo sono i nomi dei Maestri – maestri di primissimo livello, provenienti da tutta Europa: da Lluis Pasqual a Falk Richter, dai “Leoni” Jan Lauwers e Fabrice Murgia, agli italiani Antonio Latella e Ricci/Forte a molti altri -, poi, in realtà, la vera biennale è fatta dai tanti laboratoristi.
Ovvero dagli attori e dalle attrici, dai registi, drammaturghi e scenografi (e critici e blogger e fotografi, con cui abbiamo fatto un lavoro per me bellissimo e che ringrazio) che hanno frequentato i tanti laboratori della cosiddetta Biennale College Teatro.
Alex Rigola, il direttore della sezione teatro della Biennale, sornione, lo sa, ed è molto soddisfatto: per lui – sin dal primo anno di nomina – il motore pulsante, il vero fulcro di ogni iniziativa, l’obiettivo della ricerca, sono gli attori.
Fino al punto di costruire un festival “ad uso e consumo” dei laboratoristi. E la risposta, in termini di adesione, c’è stata.
Giornate piene per loro: la mattina attività pratica, il pomeriggio teoria e la sera open doors ossia quegli embrioni di spettacolo che sono gli “esiti” dei laboratori stessi.
Allora, qua, in questa micro-comunità che si è creata in dieci giorni, gli attori e le attrici sono i veri artisti. Gli artefici di tutto.
Lo penso tutti gli anni, dopo ogni Biennale, ma mai come quest’anno ne ho avuto contezza. Le donne che passano fiere e vestite leggere, bellissime e orgogliose della loro intelligente forza. Gli uomini, capaci di portare sguardi e prospettive, domande, dubbi, ironie: tesi in corpi muscolosi che si liberano in sorrisi disarmanti.
Pronti a tutto: a fare da performer o da attori classici (per superare una diatriba che ha percorso alcune conferenze dei maestri), pronti a contribuire, a creare, a raccontarsi, a danzare a cantare a suonare. E tutto benissimo, sempre.
Lo scrivo da tempo: assistiamo, almeno in Italia, a una mutazione genetica degli Attori. Meno narcisi (forse), tendenzialmente più “sociali” e sodali, e certo molto più bravi. Il livello medio dell’interprete italiano si è alzato tantissimo, per qualità, consapevolezza, disponibilità.
Queste sere mi incantavo a guardarne i volti. Magari erano stanchi, provati (a volte distrutti da lunghe ore di lavoro fisico) eppure ancora pronti, presenti, vivi, reattivi. Sono qua: decisi a imparare, determinati a dare. A confrontarsi con Maestri che, a volte – il rischio c’è – sono meno aperti, o addirittura meno inquieti di loro.
Gli occhi bruciano di curiosità, di aspettative, di ansia.
Basta un istante per passare dalla gratificazione alla frustrazione: in un quarto d’ora ci si può mettere in gioco molto, troppo. E se qualcosa non va? Se quell’investimento – ogni laboratorio, per un attore, è un investimento, personale ed economico – dovesse andare male?
Il fatto è che questo enorme gruppo di validissimi interpreti (solo a Venezia sono quasi 200) vive nell’imbarazzo di un sistema sballato, demotivante: in Italia si lavora poco e male. Eppure loro insistono, combattono, studiano, cambiano, migliorano giorno dopo giorno. Non indietreggiano di un passo. Si danno e si dannano, sempre, comunque, pur di fare teatro.
Allora, tornando in vaporetto, la notte, a Biennale finita, bisognerebbe pensare a questo mondo, a questo lottare per sopravvivere: per un po’ d’amore, per un applauso, per sentirsi dire bravi, per cambiarlo, il mondo, o solo per cambiare solo qualcuno, per fare poesia, per fare bellezza, per passione.
Questa sarà la notte di San Lorenzo: la notte dei desideri. E dietro ogni stella cadente tante cose finiscono (ad esempio, potrebbe essere l’ultimo giorno del Teatro Valle Occupato: un’altra, splendida, follia di questi anni). Però continuiamo a sperare, a provare, a inventare ostinatamente situazioni e soluzioni. Continuiamo addirittura a innamorarci.
Come diceva, più o meno, Ascanio Celestini: anche se sei un astrofisico matematico scienziato, quando vedi una stella cadente un desiderio lo esprimi. Io non so, ma se fossi un giorno direttore di questa Biennale (e va da sé che mai lo sarò) darei trecento leoni d’oro, uno ciascuno, a tutti questi attori.