La colpa è di Amleto.
È dappertutto: non faccio in tempo a vederlo a Roma e già appare a Milano. Passa dai grandi teatri e a giorni ricompare in uno spazio off. Parla italiano, ma a volte incrocia lingue esotiche o rimbomba nell’originale inglese. Ti giri un istante e te lo trovi seduto accanto, a tavola a pranzare con te, che ti guarda con un sorriso di sfottò.
È curioso notare quanto, ogni volta, Amleto sia un paradigma, un modo, una password, un processore, un dizionario, di quel che viviamo. Ormai acquisito, e pure superato, lo slogan dello “Shakespeare nostro contemporaneo”, oltre qualsiasi messa in scena, è proprio lui, Amleto, a essere un segno del tempo, un autoscatto (privato, generazionale), una verifica sistematica, un test invalsi, una prova da discutere, un amore da vivere.
Amleto, insomma, sta qua con noi, giorno dopo giorno.
Al Teatro Argentina – finalmente ritrovata casa, aperta e viva, del teatro romano – è andato in scena l’attesa versione di Hamlet firmato dal regista Andrea Baracco, con un cast di formidabili giovani attori.
Non c’ero, l’ho perso: ma i rumors attorno allo spettacolo sono stati, a loro volta, un altro spettacolo. Commenti a mezza voce, diatribe sui social: tra entusiasti e delusi, Amleto ha saputo, ancora una volta, spaccare e istillare dubbi o domande. Mi sembra che la Roma teatrale stia vivendo un periodo di grande tensione, di guerra di tutti contro tutti, di schieramenti improvvisati e sgambetti annunciati. Una situazione confusa e faticosa di cui non so dare spiegazioni, se non superficiali. La comunità teatrale, in questo momento di difficoltà economica e strutturale, anziché stringersi “a coorte/siam pronti alla morte”, svela livori e invidie fastidiosette.
Dunque l’evento Hamlet – nelle eco che si sono avvertite da chi, come me, stava in giro per il BelPaese – è diventato pretesto soprattutto per le solite frecciatine e sorrisetti stiracchiati.
Era bello? Era brutto? Era fatto bene? Chi lo sa.
Alcuni critici l’hanno incensato, altri hanno espresso perplessità, come è normale sia. Ma l’operazione capitolina, voluta dal Romaeuropa Festival, rischia di mutarsi, purtroppo, per colpa di quel clima teso, in una sorta di “strapaese”, di tifoserie schierate, di derby lazio-roma, che fa perdere intensità al bel gesto e l’ottimo lavoro del direttore artistico Fabrizio Grifasi, e del direttore dell’Argentina Antonio Calbi, di dare spazio, attenzione, sostegno a un’opera nuova italiana.
Se i circuiti ufficiali sono distanti e distratti (come spesso sono e sono stati, a partire dal Teatro di Roma del passato) rispetto alla produzione indipendente, li accusiamo – giustamente – di conservatorismo. Se si aprono, e investono, sui “giovani” – al di là dei risultati – storciamo il naso perché quei “giovani” non siamo “noi”.
Insomma, ancora una volta il pallido prence diventa, bontà sua, paradigma del nostro tempo, si presta a mettere parole e versi a disposizione di questo mondo fuori di sesto.
L’altro Amleto che si annuncia interessante (che pure mi perderò e mi spiace molto) è quello iraniano che sarà ospitato dal Piccolo Teatro di Milano. Si tratta della compagnia Quantum Theater Group, diretto da Arash Dadgar.
Altro clima, dunque, di respiro internazionale.
Curiosa storia quella del teatro in Iran. Seguitissimo, apprezzatissimo, studiato: il teatro ha un ruolo fondamentale nella società e nella vita culturale iraniana. Nel 2011, ebbi il privilegio di essere invitato nella Giuria del prestigioso Fadjr Festival. Esperienza indimenticabile per intensità e valore. Scoprimmo talenti veri (da citare almeno Nassim Solimanpour, quest’anno grande successo a Edimburgo; o Reza Servati, di cui riuscimmo a portare Strange Creature al Festival Prospettive di Torino) e ci incantammo per la passione condivisa da artisti e pubblico. Vedemmo un teatro consapevole delle contraddizioni del paese, che sapeva parlare – della politica, della religione, della censura – usando intelligentemente metafore e suggestioni (riscuoteva molto favore il teatro di Garcia Lorca, ad esempio). Teatro capace di sopravvivere anche nei periodi bui, pronto a cogliere ogni segnale di speranza e di combattere contro le restrizioni imposte da governi spesso molto duri. In Iran non mancano di una antica tradizione scenica – quella del Tazié – e di tentativi di sperimentazione attraverso nuovi linguaggi, affrontati magari con soluzioni che possono risultare ingenui agli occhi smaliziati dello spettatore occidentale. Ma è sempre un teatro vivo, condiviso, che vuole parlare e raccontare. Ora che il Paese sta vivendo un nuovo corso di apertura e di dialogo, potrebbe essere intrigante capire come il nostro Amleto si muova nei meandri di una realtà complessa e vivacissima come quella di Teheran e dell’intero Iran.
Parlerà Farsi, lo Shakespeare in scena al Piccolo: e il vecchio Amleto, ne siamo certi, racconterà molto più di quel che dice. Saprà svelarci, sornione, qualcosa di più del nostro tempo gramo.