In principio fu la brugola.
Ogni bravo scatolone Ikea, piatto che più piatto non si può, aveva al suo interno questa piccola e tenera brugola che ti dava la sensazione di essere onnipotente e di poter costruire l’Empire State Building senza colpo ferire. E quando questa brugolina omaggio risultava addirittura superflua, ancora meglio.
“Ma chi sono?” esclamavi con un ghigno beffardo, davanti alle sedie Ingolf perfettamente montate. E se l’occhio ti cadeva sulle due Louis Ghost comprate quando ancora credevi che investire nella plastica di design fosse cosa buona e giusta, aggiungevi pure un bel “Rosica, sfigato” rivolto a Philippe Starck.
Poi qualcosa è cambiato e la brugola Ikea si è un po’ persa, soppiantata dai cacciavite a stella e dagli avvitatori automatici. Sparito da tante scatole, questo metallico simbolo della nostra indipendenza – e della nostra straordinaria abilità nel bricolage – non è però sparito dai nostri cuori ed è proprio per questo motivo che ogni tanto qualcuno si chiede: “Ma dove sono andate a finire tutte quelle povere brugoline messe in pensione dai clienti e dall’Ikea stessa?”
Sono andate a finire – fonti interne lo confermano – nella casa albergo per brugole Ikea. In Florida, come è giusto che sia. Lì, spaparanzate al sole, si godono il meritato riposo, guardando gli alligatori e (s)parlando di chi, volente o nolente, le ha avute per le mani.
Il precisino, ad esempio, le amava e le collezionava, così come amava e collezionava le matitine e i metri di carta. Ogni scatola era una nuova brugola e ogni nuova brugola era una nuova sfida: riuscirò anche stavolta – si chiedeva – a montare tutto in bolla, senza imperfezioni e senza schegge impazzite? Riusciva, di solito, e la brugola finiva poi nella scatola degli attrezzi, perfettamente ordinata, insieme alle sue sorelle. Una collezione di medaglie al valore da far invidia a Muttley.
Il superiore credeva di poterne farne a meno – stesso ragionamento che applicava anche alle istruzioni – e quando si ritrovava con una libreria Billy a mensole verticali pressoché inutilizzabile, si limitava a spacciarla per post-moderna.
Il casinista le amava, come il precisino, ma non le capiva. Con l’occhio un po’ lucido e le viti inserite nel mobile in posizioni del tutto arbitrarie, passava le ore a scuotere il capo e a sussurrare alla brugola del momento: “Non preoccuparti cara, non sei tu, sono io”.
L’impulsivo le considerava figlie di Satana e, in preda a raptus nervosi provocati dalla mancata comprensione della figura 3c, gli capitava di scagliarle con veemenza per la stanza, rompendo fior di lampadari e di suppellettili ed entrando di conseguenza in un circolo vizioso che faceva dell’Ikea la sua seconda casa.
Il forzuto ci trivellava ante e affini. È tra l’altro merito dei suoi carotaggi, che nulla avevano da invidiare a quelli delle missioni in Antartide, se oggi sappiamo che lo strato più profondo del tavolino Lack risale al Pleistocene.
Questi e altri ricordi sono quelli che si scambiano, nella casa albergo in Florida, le brugole Ikea ormai pensionate. Tra un Martini e una foto di un tramonto postata su Instagram, riflettono sulla caducità della vita e sul fatto che, in fondo, a loro non è andata affatto male.
Poteva essere peggio.
Potevano essere gli uomini costretti ad usarle.
Nota patetico-sentimentale: oggi questo blog compie tre anni e io sono felice, molto felice, perché mi ha portato tante cose belle e ha allargato i miei orizzonti. Un po’. Certo, rimane una domanda: chi avrebbe mai pensato che io avessi dentro tante parole?