Di ritorno dalla Turchia (21 marzo 2016)
Vorrei fare un breve punto – impreciso e non conclusivo – su un’esperienza in corso, generata dalla percezione di qualche tempo fa circa una vicenda che ha sempre più conquistato le prima pagine dei media: lo sciame biblico di milioni di siriani in un ampio quadro territoriale metafora di una nascente diversa geopolitica. Si è parlato di una immensa mobilità determinata sia dal carattere distruttivo della guerra (Aleppo – contava 3,6 milioni di abitanti – è annientata, una città scheletro abbandonata) sia dal sottrarsi dall’arruolamento in guerra di Assad. UNHCR ha stimato questa mobilità forzata in più di 12 milioni di persone, pari al 60% della popolazione, di cui una parte (dai 7 agli 8 milioni) interna alla Siria e una parte (dai 4 ai 5 milioni) verso i paesi limitrofi (Turchia, Giordania, Libano, Iraq) con la quota in assoluto più ampia in Turchia e con destinazioni finali che hanno riguardato poi molti paesi della UE, primariamente la Germania.
Questa vicenda sta infatti modificando strutturalmente la questione migratoria internazionale, introducendo un altro baricentro planetario, non più solo il Mediterraneo legato a flussi del sud del mondo, ma l’Asia minore e l’intricata geografia mediorientale connessa a flussi musulmani regolati dal delicato rapporto tra musulmani di lingue diverse come turchi e siriani. Soprattutto introducendo un intreccio di varie enormi complessità:
– la questione dell’estremismo islamico (tagliagole, iconoclasta, mercuriale, comunicatore, protagonista dell’agenda occidentale dopo il “successo” degli attentati di Parigi);
– la questione delle tre parti separate del Curdistan (Iraq, Turchia e Sira) e dell’incubo di Erdogan di vederle in qualche modo riunificabili;
– la questione dello scontro tra due potenze con tratti similari (Turchia e Russia);
– la questione della crescita della centralità del rapporto tra Europa dell’ovest (UE) e Europa dell’est (Russia, Turchia, Balcani) rispetto alla tradizionale questione del rapporto tra Europa del nord (a regia tedesca) e Europa del sud (a contagio greco);
– la questione del rapporto politico tra UE e Turchia , questione cruciale della politica estera europea e del coraggio (forse) di disegnare una strategia capace di non dipendere, in ogni metro e quindi a breve e brevissimo termine, dai riflessi elettorali interni ai paesi membri.
Come si può vedere il filo rosso di questi grandi e irrisolti dossier si chiama Turchia. E non a caso l’accordo chiuso in questi giorni tra Europa e Turchia parte dalla questione migratoria; cerca di trovare un denominatore che presso ciascun paese possa essere venduto come “soluzione”; vede l’Europa pagare prezzi finanziari e politici rilevanti; apparentemente rinvia la questione di una diaspora siriana in tutta l’area europea (Germania in testa); corre il rischio di essere considerata umanitariamente e civilmente vigliacca ma fa dire agli analisti abitualmente non pressapochisti “l’accordo smuove una situazione che pareva paralizzata …apre la strada verso una fase nuova che non riguarda solo il tema dei rifugiati ma ha ripercussioni rispetto a tutti i temi della crisi mediorientale e alla possibilità concreta che la domanda di ammissione nell’Unione, presentata dalla Turchia nel 1987, venga finalmente discussa in modo costruttivo” (Ennio Di Nolfo, Messaggero, 20 marzo 2016). Gli attentati, pare di provenienze diverse, che hanno drammaticamente colpito di recente Ankara e Istanbul, sono l’infelice controprova di questa centralità politica.
Ho avuto l’opportunità di partecipare dal 16 al 18 marzo ad una missione italiana impegnata in una conferenza italo-turca sulla questione delle migrazioni siriane (soprattutto questione donne e bambini e soprattutto sui profili post-emergenziali, cioè nella fase due rispetto all’approdo dall’esodo e quindi sui temi educativi, linguistici, comunicativi, lavorativi, sociali).
Ne ho scritto in alcune corrispondenze su questo mio blog nel quotidiano online Linkiesta cercando di stare sul minimalismo delle cose che la conferenza di Gaziantep ha prodotto. Una conferenza che ha evitato il propagandismo, perché ha fatto parlare insieme, con ruolo propositivo italiano, sia turchi che siriani. In essa i turchi (con quasi tre milioni di siriani in casa) hanno espresso un approccio positivo all’accoglienza e alla gestione della fase due; il dibattito pubblico che impegna istituzioni e associazioni ha segnalato tratti né banali né sprovveduti, avendo come confini le grandi questioni di cornice prima accennate ma avendo anche come confine il sentimento dei migranti e rifugiati siriani che apprezzano l’accoglienza ma non gradiscono né l’assimilazione né la turchizzazione della loro soluzione. Con il pensiero comunque diffuso al ritorno in patria a guerra conclusa.
E’ sui media in questi giorni il progetto del governo turco (il presidente Erdogan ha detto di averne parlato con Obama) di immaginare la creazione di uno stato cuscinetto (ovvero di una città grande come San Francisco), nel nord della Siria, che riunisca la diaspora siriana per generare una loro autogestione sotto egida turca e magari anche internazionale soprattutto collocato geograficamente per spezzare ogni ipotesi di avvicinamento delle tre aree curde ora disarticolate. C’è chi dice che il progetto sia ora riposto in frigorifero, chi dice che i sei miliardi di euro (prezzo che sarà pagato dai paesi della UE per far trattenere e gestire ai turchi l’esodo inevitabile dalla Siria in fiamme) avrebbe potuto essere impiegato per scopi più complessi e di fondo legati ai nodi principali della nuove geografia migratoria che avvolge l’Europa. Ma ogni paese ragiona come alla fine ha ragionato anche l’Italia: allontanare il rischio di altre invasioni che nei paesi a democrazia funzionante finiscono per cascare quasi sempre dentro delicate elezioni.
Nel corso della conferenza di Gaziantep – utili le voci meno burocratiche di molte associazioni sociali e ong – si sono sentite opinioni accreditate sulla concretezza della gestione dell’accoglienza, mentre non era scopo di quella conferenza ragionare sulla cornice politica generale qui appena solo abbozzata.
Il collega Giancarlo Blangiardo (demografo) e chi qui scrive (comunicazioni e media) hanno avuto il compito di segnalare due temi:
– quello dello scenario demografico prossimo venturo che stabilizzerà, sia pure con incrementi ancora importanti, la fertilità ma che non sa ancora come regolare la mobilità che – perduranti le cause e crescendo la comunicazione – produrrà effetti anche dirompenti;
– quello dello scenario della rappresentazione mediatica globale che genera quasi tutte le cornici interpretative del fenomeno, oggi con una doppia pista capace di affrontare, alimentandola, tanto la domanda di paure indistinte; quanto la domanda di conoscenza delle storie umane e quindi capace non solo di alimentare patologie ma anche di promuovere solidarietà.
Entrambi i temi (mobilità e comunicazione) stanno diventando questioni di strategia nella gestione di ogni politica migratoria, compresa quella dei presidi e dei centri di accoglienza. Ciò che invalida sempre di più i modelli organizzativi fondati solo sulla diarchia sicurezza-sanità. Temi importanti ma che devono essere equilibrati in un modello co-decisionale di più ampie vedute.
Tra pochi giorni questo tentativo di approfondimento mi porterà a Lesbo, l’isola greca di fronte alle coste turche dove si stavano paurosamente ammassando i siriani pronti a spargersi poi per i paesi della UE e che invece saranno rimandati in Turchia. L’8 e il 9 aprile si sono dati lì appuntamento i responsabili della comunicazione dei paesi della UE (e delle stesse istituzioni della UE), non per decidere ma per confrontare analisi e approcci. Io lì ripeterò la mia proposta di rendere più strategica la funzione comunicativa e di relazione con i media. So che molti non si sbracceranno e che cercheranno di riflettere la “prudenza istituzionale” che ha intanto portato al primo rapido accordo di ieri.
Ma ci si vedrà in faccia per due giorni e si vedranno anche i greci che hanno in casa alcuni snodi drammatici dell’attuale fase di contenimento dello sciame biblico dei siriani. Lì cercherò di completare – nei limiti del possibile – questa ricognizione in cui parlando di siriani hai scambiato con loro un’opinione, parlando di turchi li hai sentiti ragionare, parlando di UE hai tentato di scorgere dietro le ufficialità sentimenti culturali e civili. Poi interrogherò alcuni amici esperti dell’analisi geopolitica che le nuove migrazioni hanno in parte generato e in parte modificato. E ancora, dal 9 al 12, maggio conto di sondare a Bruxelles l’evoluzione (se c’è realmente evoluzione) dell’approccio al tema delle istituzioni della UE. Se alla fine, anche solo rispetto alla cornice mediatico-comunicativa a cui per competenza cerco di attenermi, sarà emerso qualcosa che farà quadrare meglio le infinite domande che tanta gente civilmente preoccupata si pone, proverò – qui o altrove – a riferire senza avere reticenze.