Mentre la parte di Brasile contraria al governo in carica si preparava a scendere in piazza per una spallata al governo di Dilma Rousseff, non erano mancati segnali contrastanti di vario tipo e genere.
La polizia che fa irruzione in forze senza ragione a una pacifica riunione sindacale a Diadema, alle porte di San Paolo, identificando tutti i presenti. La sede dell’Unione Nazionale degli Studenti oggetto di un attacco vandalistico. La rivista Epoca che riprende con toni scandalistici, gridando al “tesoro di Lula” immagini di oggetti d’arte, rubate durante la perquisizione di una settimana fa, “dimenticando” di aver ritratto quegli stessi oggetti cinque anni fa, in un ordinario reportage sui doni ricevuti dall’allora presidente nei suoi viaggi di stato (e che la legge fa obbligo all’interessato di portarsi via al termine del mandato per catalogarli e tenerli a disposizione dello stato).
E ancora, il leader dello schieramento anti corruzione e del PSDB, maggior partito di opposizione, il candidato sconfitto alle elezioni presidenziali di fine 2014 Aécio Neves, citato da ben 4 pentiti dell’operazione Lava Jato, senza che per questo sia ancora stata aperta alcuna inchiesta su di lui. Un altro esponente di primo piano del PSDB, il governatore dello stato di San Paolo Geraldo Alckmin, che ha appena portato a termine una durissima stagione di tagli all’educazione, chiudendo decine di scuole nella regione metropolitana paulista, tagliando i fondi per la “merenda escolar”, in nome dell’equilibrio di bilancio, ma che decreta metro e autobus gratis per tutti i partecipanti alla mobilitazione.
Un manifesto di 100 procuratori contro la richiesta di arresto cautelare di Lula cui presto ne viene contrapposto uno a favore, ma firmato da 600 esponenti della pubblica accusa, giusto per accrescere la serenità della magistrata 45enne chiamata nelle prossime ore a dire si o no a una misura che rischia di incendiare il paese.
Sono solo alcuni degli episodi che aiutano a capire il clima in cui si è svolta domenica 13 marzo in tutto il Brasile (nella foto, la concentrazione in Avenida Paulista) la grande manifestazione organizzata dai partiti di opposizione per inneggiare all’impeachment di Dilma e alla cacciata del governo del Partido dos Trabalhadores. La pressione congiunta della piazza e dei media era così forte che la stessa presidente ha sentito il dovere di una conferenza stampa, venerdì pomeriggio, per sfidare i giornalisti presenti: “guardatemi, vi sembro una che ha la faccia rassegnata?”, ha chiesto al culmine della breve apparizione, in cui ancora una volta ha ricordato l’arresto e le torture subite in gioventù ad opera degli agenti della dittatura militare.
Dilaniato da conflitti e contraddizioni a tutti i livelli, il Brasile si trova in una situazione esplosiva, che si evolve di ora in ora, dove la dimensione dell’interesse collettivo pare essere diventata un’espressione vuota. Come era forse da aspettarsi, la notizia del giorno è stata sì la grande mobilitazione popolare, ma anche il fatto che l’opposizione moderata è stata fischiata ed espulsa dal corteo più importante, quello appunto di San Paolo, sorte che è toccata a Aécio Neves e Geraldo Alckmin (di cui abbiamo detto), ma anche a Marta Suplicy, ex sindaco della capitale paulista e recente tranfuga dal PT al PMDB, da cui lancia continui strali contro il suo ex partito.
Come era da attendersi, il martellamento mediatico degli ultimi mesi, ancorché orientato principalmente contro la sinistra al governo, ha suscitato una reazione “antipolitica” a tutto tondo. Unici “eroi” della giornata il leader della destra estrema e omofoba Jair Bolsonaro e il giudice della Lava Jato Sergio Moro: non è un buon viatico per un Brasile ancora afflitto da una grave crisi economica.