Ha avuto l’alito di una beffa venerdì scorso la notizia della scomparsa di Dario Fo e quella, poche ore dopo, dell’assegnazione del Nobel per la Letteratura a Bob Dylan. La vignetta di Giannelli, pubblicata l’indomani sul Corriere della Sera, metteva in risalto con ironia garbata il giullare Nobel che andava a scherzare con i santi. “La sapete l’ultima? Il mio Nobel per la Letteratura l’hanno dato a Bob Dylan”, esclamava il Fo disegnato a matita.
Attutitosi il polverone delle polemiche che hanno visto azzuffarsi scrittori, intellettuali e voci comuni sui social network, resta il dubbio: ricorderemo questo Nobel come il più contestato o come quello che ha riscattato il testo di una canzone da cianfrusaglia popolare?
Quanti necrologi di questi giorni sono stati impastati da coloro che nel ’97 polemizzarono sulla scelta degli Accademici di Svezia di dare il Nobel alla “parola recitata” di Dario Fo. Dopo quasi vent’anni il coltello è puntato contro il menestrello di Duluth, che ha stilato il manifesto di una generazione con brani come Like a Rolling Stone, Blowin’ in the Wind o The Times They are a-Changin’.
Mettiamo una cosa in chiaro: per quasi tutti la musica prende il sopravvento sul testo e soltanto una ristretta minoranza avvinghia una lingua straniera per impossessarsi del significato di una canzone.
Alcuni della mia generazione hanno imparato l’inglese – e non ce ne vergogniamo – per tradurre i testi delle canzoni di Bob Dylan, sul tramonto degli anni ’80 in cui vedemmo le parole delle ballate del menestrello liberarsi dalla prigionia degli inserti dei vinili impolverati e circolare in libretti in edizione economica, tra gli scaffali delle edicole, come fossero romanzetti popolari.
Abbiamo cantato e ripetuto a pappardella senza accorgerci che nel “Bussare alla porta del cielo” (Knockin’ on Heaven’s Door) o nel “Vola via nel vento” (Blowin’ in the Wind) c’erano litri e litri di additivi letterari, citazioni millenarie, schegge impazzite di epica trasudata in impegno civile, sputi in faccia alle distinzioni di classe sociale.
Chiacchierare a lungo con Fernanda Pivano, pifferaia di sogni letterari d’oltreoceano, mi servì a suo tempo per afferrare il valore incommensurabile di una traduzione. Senza la generosità e le posizioni battagliere della Pivano, i miei genitori non avrebbero conosciuto e letto i Ginsberg, i Kerouac, i Bukowski, cordata della Beat Generation che si lega indirettamente al microcosmo di Dylan, senza per forza finire alla gogna della nostalgia dell’America che fu.
La mia generazione ha tradotto “alla buona” i testi di Robert Allen Zimmerman senza aver vissuto l’America degli anni ’60, oggi prosciugatasi nella distilleria della Sinistra salottiera che sorseggia gin tonic, fuma sigari e aspetta con trepidazione il ritorno della lobby dei Clinton alla Casa Bianca.
I testi di Dylan, ovvero poesie musicate travestite da canzoni, hanno sussurrato letteratura e raccontato l’altra America a noi che non siamo finiti nel fango della guerra del Vietnam, a noi che non abbiamo assistito ala fine dell‘American Dream con gli spari a JFK, a noi che non abbiamo vissuto le lotte per i diritti civili dei neri d’America, a noi che non siamo stati a guardare l’evaporazione delle utopie hippy o delle contestazioni sessantottine all’Università di Berkeley.
Lasciamo l’ipoteca sul Nobel a Bob Dylan? Sorvoliamo per i prossimi dieci anni e poi ne riparliamo. Nel frattempo, il Nobel per la Letteratura è suo perchè anche per la canzone The Times They Are a-Changin’:
Come mothers and fathers
Throughout the land
And don’t criticize
What you can’t understand
Your sons and your daughters
Are beyond your command
Your old road is
Rapidly agin’.
Please get out of the new one
If you can’t lend your hand
For the times they are a-changin’.