Ieri, a un mese esatto dalla sconfitta alle elezioni, Hillary Clinton è entrata in Campidoglio per partecipare alla cerimonia di addio di Henry Reid, Senatore del Nevada che lascia la carica dopo 30 anni di lavoro.
Una festa di pensionamento, in pratica, niente di che.
E, visto che i simboli sono importanti, dal Campidoglio ha scelto di fare un discorso politico e ha detto che è dovere di una classe politica limitare o, meglio, fermare l’invasione delle Fake News.
“Si tratta di un’epidemia- ha detto-: ed è chiaro che le cosiddette Fake News possono avere conseguenze reali nel mondo reale. Non è questione di politica o di partiti: ci sono vite in pericolo. Occorre intervenire e intervenire in fretta, per fermare una propaganda mendace e pericolosa. E’ un imperativo che le aziende private e gli enti pubblici si attivino per difendere la nostra democrazia e vite innocenti di persone innocenti”.
E’ vero quello che dice o è solo che Hillary rosica e ha bisogno di qualcuno a cui dare la colpa di quello che è successo?
Guardiamo ai fatti.
Oggi Hillary Clinton è un privato cittadino che si fa i selfie nel bosco dietro casa e va alle feste di pensionamento. La sua parola, oggi, vale come quella di chiunque. Ha parlato di fake news ma avrebbe potuto anche parlare di biscotti per quel vale. Probabilmente, visto che pochi giorni fa un tizio ha letto su Facebook che lei stessa gestiva un giro di pedofili da un pizzeria e ha ben pensato di entrare nella pizzeria in questione brandendo un mitra e cercando una gang di pederasti democratici, Hillary ha ritenuto di parlare di Fake News invece che di biscotti.
Ci sta.
Il problema, però, è che in fondo Hillary Clinton non è un privato cittadino e forse non lo sarà mai del tutto, e quindi se dice una cosa non lo fa per caso. Quando parla, Hillary Clinton, detta un agenda. Sono trent’anni che è così.
E l’agenda di ora, stante il discorso al Campidoglio, è ‘fermate questo schifo’.
Prima di urlare alla censura e di sbraitare che la gente è in grado di scegliere a cosa credere, guardatevi intorno facendo lo slalom tra schede già votate per il sì o figlie di ministri andate in pensione a 30 anni o pizzerie pedofile o funghi più alti del mondo alti 10 metri.
Sarebbero stupidaggini, danni collaterali della disinformazione, che c’è sempre stata, non fosse che girano sui medium più potente di sempre, il più potente di tutti.
E non è roba da poco se si pensa che, nella campagna Trump-Hillary, la diffusione delle 20 notizie false più lette ha superato quella delle notizie dei 19 principali siti di informazione messi insieme (lo spiega Craig Silverman qui).
Facebook, per dire, ha circa un miliardo e 400 milioni di iscritti.
Un miliardo e 400 milioni.
Significa che quello che viene pubblicato lì può potenzialmente essere visto da un quarto del mondo.
E sarebbe, anzi: è, una cosa ottima.
Ma i problemi cominciano quando questo qualcosa che viene pubblicato e, potenzialmente letto da un quarto del mondo, è una bufala, una bugia inventata di sana pianta.
Perché se alle persone si dicono bugie, e si dicono con il medium più potente del mondo, alla fine le persone sapranno solo cose false.
E noi funzioniamo un po’ come i computer: per funzionare correttamente abbiamo bisogno di informazioni esatte.
Altrimenti siamo solo scatole vuote, impazzite e inutili.