Qualche mese fa a Buenos Aires, spulciando tra vecchio vinile, sono sbucati fuori un paio di vecchi dischi di Argentinisima, programma radiofonico e televisivo di musica folcloristica argentina. Il tizio della bancarella ha precisato: “Per noi equivaleva al vostro Festival di Sanremo perchè univa sul divano di casa più generazioni”.
L’ambulante argentino, oltre ad avermi fatto ritrovare il nostro baraccone festivaliero in Sudamerica, ha risposto ad uno degli assillanti interrogativi che mi assale puntualmente alla vigilia del festival: L’Italia ha bisogno ancora del Festival della Canzone Italia?
Sì, perchè è l’unico rito che fa ritrovare seduti nel soggiorno di casa nonni, papà e figli tanto da ribadire “Sanremo con i tuoi, Natale e Pasqua con chi vuoi”.
Nella sala d’attesa di Sanremo 2017 troviamo in prima linea i social network, che hanno restituito al festival una nuova giovenizza, trasferendo lo sfrenato chiacchiericcio sulle timeline e bacheche di Twitter e Facebook. Facciamocene una ragione: le canzoni si dimenticano in fretta – li ricordate ancora i titoli di quelle vincitrici delle ultime edizioni? – restano soltanto tweet traballanti o status facebookiani tra gossip e folclore scaduto.
Vogliamo o non vogliamo il Festival di Sanremo è l‘ultima riserva della memoria per rivedere i nostri nonni canticchiare il Boom del Belpease; papà e mamma rimpatriare i clamori sessantottini; quelli della mia generazione bucare con l’ago i palloni gonfiati degli anni del riflusso.
Voi da che parte siete della barricata, tra coloro che additano il palco dell’Ariston a culla di fenomeni da baraccone o zona franca dove mettere ordine al pentagramma del canzoniere della nostra vita?
Senza perdersi tra i vezzi nostalgici, sono lontani anni luce i tempi dele rivoluzioni del Modugno di Nel blu dipinto di blu nella trasfigurazione musicale dell’arte di Chagall; gli urlatori alla Dallara che fecero della Romantica di Rascel un nuovo manifesto del sentimentalismo; i profeti alla Tenco che vestirono di futuro poesie musicate come Ciao amore, ciao; il manifesto post-68 del Dalla di Piazza Grande; la strafottenza anti-borghese di Gaetano in Gianna; il rock grezzo vomitato dal Vasco di Vado al massimo; i fatti di cronaca del Faletti di Signor Tenente; gli ammortizzatori zappiani di Elio e le storie tese in La terra dei cachi.
Il Festival di Sanremo resta lo specchio in cui si riflette l’Italia e le carte false del diabolico televoto che, dopo aver voltato le spalle al Baudismo della Prima Repubblica, ha consegnato l’Ariston nelle mani di un toscanaccio erede alla Carlo Conti. Quest’anno ci hanno infilato pure Maria De Filippi, regina madre del talent made in Italy. Gira e rigira, tutto si mescola.
Sarà un Sanremo più da “Amici” o da “Migliori anni della nostra vita”? Lo capiremo ascoltando con attenzione la pancia dei social.