Il segreto del successo della Biennale di Venezia starebbe tutto nella sua divisione tra investimenti pubblici e privati, dice The Economist. Ma cosa fa davvero sì che il format della Biennale replicato in tutto il mondo sia rimasto più importante nella sua città di origine? Continuano ad insediarsi a Venezia grandi fondazioni d’arte come quella di Pinault (vedi mostra off Biennale di Damien Hirst), o più discretamente quella del suo rivale Arnault, la crescente fondazione Vuitton (vedi mostra off Biennale di Pierre Huygue), o quest’anno la russa VAC Foundation, tutte nelle orme sessant’anni fa della celebre collezionista e mecenate americana Peggy Guggenheim seppellita nel giardino della sua residenza a Dorsoduro diventata oggi museo di proprietà della Fondazione Guggenheim. Insomma c’è qualcosa nella Biennale di Venezia di non esportabile che però non è esattamente collegato al mercato, come pensa The Economist, ma alla Storia.
Venezia è il luogo dove la pluricentenaria cultura europea ha portato alla creazione un secolo fa della Biennale. La Biennale nasce come uno spazio di confronto fra ideali artistici che nei primi del Novecento si pensava dovesse essere diviso per nazioni. Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’arte europea, che da Parigi si era spostata a New York, diventa una colossale joint-venture culturale chiamata Pop Art grazie al sostegno attivo di mercanti e politici americani dando inizio all’arte mondializzata e rivoluzionando la storia dell’arte. In quelle circostanze uniche, in cui in America una politica democratica ha strutturato assecondandola la ricerca artistica, l’America ha però messo in primo piano la propria cultura, la cultura cioè del mercato, invertendo quella dinamica necessaria all’innovazione. Così, a causa della prevalenza del mercato sulla ricerca, alla Pop Art non è seguita nessuna istanza nuova per cui oggi l’arte è diventata un brand senza contenuto euforicamente commercializzato.
Con un sistema dell’arte svuotato di significato è logico che Venezia, un luogo ricco di Storia e di tradizioni artistiche, sia più predisposta di altre città a dare senso alla Biennale – seppur in modo anacronistico. Ma solo perché finora le economie mondiali sono tutte allineate sulla cultura americana (in cui il mercato predomina la ricerca). Ma Venezia – l’Italia – rischia di vedersi togliere questo primato a qualunque momento. Oggi qualsiasi altra città, anche in tutt’altra parte del mondo, sarebbe in grado di riattivare il confronto culturale interrotto cinquant’anni fa. Chi poteva aspettarsi che Zurigo, in una Svizzera in quel caso provvidenzialmente neutrale, potesse diventare il teatro di un confronto culturale iniziato con i Futuristi, interrotto durante la Prima Guerra Mondiale e conosciuto oggi come Dadà?
Da cinquant’anni il sistema dell’arte è una fiction senza un copione in cui curatori, critici e artisti, collezionisti e galleristi simulano istanze artistiche indefinite. Com’è possibile dimostrare che la Biennale di Christine Macel è un flop come molti critici italiani hanno azzardato? E su quali basi il Padiglione italiano di Cecilia Alemanni sarebbe migliore di quello di Vincenzo Trione nel 2015 o di tutti quelli precedenti? Sulla base del consenso generale? Della monumentalità?
O si accetta che se l’arte è indefinita nessuno, nemmeno una curatrice italiana di New York è migliore di un altro, o si cambiano le regole del gioco. Dopo vent’anni dall’ultima riforma (1998, primo anno della presidenza Baratta), sarebbe ora che la Biennale di Venezia assegni direttamente i padiglioni alle teorie – che nell’arte contano come veri e propri brevetti – invece che alle nazioni. Investitori e operatori commerciali sarebbero solo in un secondo tempo chiamati a scegliere quale teoria-padiglione sostenere. Oppure, se la Biennale di Venezia non sarà ancora riformata, caro curatore della Biennale del 2019, rilevi non più sporadiche poetiche o pretestuali tematiche – come da anni fanno i curatori che si susseguono alla Biennale – ma formule artistiche nuove, teorizzate e sperimentate. Perché la Biennale deve permettere alla ricerca artistica di confrontarsi a dei livelli industriali, a dei livelli in cui è possibile valutare i risultati macroscopicamente, che sono le proporzioni della cultura e della Storia. Solo così la premiazione potrà essere decisiva e la ricerca arrivare al pubblico. Che cos’è una biennale se non una casa di distribuzione artistica? Anche l’arte deve avere la sua notte degli oscar.
Raja El Fani