Lei disse: “Dimmi qualcosa di bello” Lui rispose: “(∂ + m) ψ = 0”.
In diversi siti internet circola una citazione basata sull’equazione della bellezza di Paul Adrien Maurice Dirac (Bristol, 8 agosto 1902 – Tallahassee, 20 ottobre 1984) fisico e matematico britannico considerato tra i fondatori della meccanica quantistica.
(∂ + m) ψ = 0 è forse l’equazione più famosa di Dirac e significa che: “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce”.
Per molti, in una visione più romantica che scientifica, l’equazione d’onda che descrive in modo relativisticamente invariante il moto dei fermioni, nell’ambito della cosiddetta meccanica quantistica relativistica è la formula dell’amore.
Sono già diversi anni che il maggior numero di connessioni ad internet avviene tramite dispositivi mobile e che il traffico dati supera quello voce tanto che siamo, senza ombra di dubbio, la generazione più connessa della storia dell’umanità e le compagnie telefoniche basano i propri maggiori guadagni sulla vendita di Gigabyte per la connessione ad internet.
Un fiume di connessioni, a misura di byte ed a portata di mano che si sviluppa soprattutto nei social network, tanto che secondo l’ultima indagine di Blogmeter l’84% degli intervistati ha dichiarato di utilizzare quotidianamente Facebook, ma che rende difficile forse la connessione più naturale, quella con l’altro che sta difronte, qui ed ora, hic et nunc per dirla come i latini.
Il rischio vero è l’incomunicabilità tra padri e figli, tra colleghi, tra amici, tra noi e le nostre coscienze. Ecco che la conversazione iniziale è la vera sfida nell’era del virtuale che ci fa dimenticare il reale, per non correre il rischio di vivere sconnessi. Perché la rete avvicina chi è lontano ma rischia di allontanare chi è vicino a te.
Crediamo di essere connessi, ma siamo sempre più sconnessi, scollegati, scollati, tutti prigionieri e vittime (inconsapevoli) di algoritmi che ci illudono, ci spingono ad unirci a qualcuno o a qualcosa, ma in effetti abbiamo soltanto un’ illusione di quella che è la vera realtà di ciò che ci viene chiesto. Quelle notizie che vediamo e leggiamo, non sappiamo se sono soltanto propaganda o verità, se sono le migliori o le peggiori, se ci sono utili o inutili.
Siamo così come tanti puntini senza legame, come disse Steve Jobs agli studenti della Stanford University nel discorso reso celebre dallo “stay hungry, stay foolish”. Costruiamo impalcature per andare da una locanda all’altra, da un’ esperienza all’altra, senza mai fermarci in una casa, come ha sottolineato Bauman nella sua critica alla postmodernità.
Connessi fuori, col mondo, con la rete, ma tanto s-connessi dentro. Siamo presi dall’ansia di postare, di condividere, siamo presi dalla frenesia di cominciare una nuova avventura, non c’è tempo per fermarsi. Invece per trovare un filo occorre fermarsi, andare in disparte, imparare a rileggere le proprie esperienze. Nella nostra visione ci pensiamo come brand, marchi, piccole aziende che promuoviamo continuamentente anche attraverso il nostro mondo di relazioni e non prendiamo neppure in considerazione di andare in disparte per tornare a rileggere quello che abbiamo vissuto, per mettere in fila gli eventi, per cercare una traccia di senso che attraversa le nostre esperienze.
Ci vergogniamo di fermarci, ci sentiamo in colpa davanti alla gratuità del tempo: tutto deve essere riempito. Abbiamo paura del vuoto.
l film più visti di questi ultimi anni sono quelli sui super-eroi, perché ci sentiamo tutti un po’ super-eroi, tutti con il nostro mondo da salvare, tutti per dirla alla Luciano Ligabue con la voglia di viaggiare in prima classe, tutti incapaci di fermarsi. Siamo automobili veloci a cui non hanno montato i freni. Ma serve fermarsi e rileggere. Serve fermarsi per rileggere.
Il paradosso è che oggi una delle prime domande quando si entra in una hall d’albergo o in un bar è chiedere la password della connessione wi-fi. E pensare che nel primo museo archeologico virtuale, nato ad Ercolano, c’è scritto all’ingresso “Intelligenza connettiva”. Vivere connessi dovrebbe permettere di entrare nel mondo delle persone, scorgerne i lineamenti che a volte il tempo sbiadisce e i troppi impegni offuscano. Insomma non un esercizio ludico ma formativo, perché serve sviluppare un’intelliggenza connettiva, la stessa necessaria davanti ad un’opera d’arte, perché della nostra vita dobbiamo farne un capolavoro non un catalogo patinato.