Trovare il volto di Anna Frank spiaccicato sulla maglia degli ultrà mi riporta all’idea bizzarra di un decennio fa di alzare le mura di una discoteca nei pressi di Auschwitz. In visita al campo di concentramento sulla zolla di terra polacca rinunciai al mio reportage. Misi la camera in borsa, vedere ciò che restava di quel genocidio mi scombussolò.
Non sono d’accordo né con chi si è sforzato di ribaltare il significato del mediocre gesto goliardico né con chi in maniera sibillina lo ha giustificato, al di là del solito rumore di indignazione collettiva.
Ai miei tempi del liceo di tshirt che promulgavano ironia da bassofondo ce n’erano a quantità industriale. A città del Vaticano vendevano la maglietta con il volto del pontefice Karol Wojtyla che recitava “The Pope smokes the dope”, sulle orme dell’album musicale di David Peel.
Allora a qualcuno bastava una rima in inglese per farsi un mucchietto di risate, oggi un volto simbolo viene trasfigurato per incitare odio razziale tra becere tifoserie da stadio.
La prima volta che percepii mia madre come educatrice fu quando mi regalò il Diario di Anna Frank. Il suo gesto, accompagnato dal monito severo di trattare quel libro in maniera diversa dagli altri, allontanò da me la convinzione infantile che tutti noi bimbi avessimo il sacrosanto diritto di un’infanzia felice senza essere costretti a nasconderci in una soffitta.
Il volto di Anna Frank va custodito gelosamente e difeso senza sconti per nessuno perché è patrimonio della coscienza civile dell’umanità. Sono contento di essere cresciuto in un’epoca in cui il permissivismo cronico non andava di moda e il calcio non era fango gettato al vento. Oggi basta davvero poco per essere un sepolcro imbiancato, anche sugli spalti di uno stadio.