Titolo bizzarro, lo so. Quando è uscito il mio ultimo volume, che s’intitola per l’appunto Croce e l’ansia di un’altra città (Mimesis 2017), alcuni hanno salutato col sorriso la mia stravaganza, altri mi hanno rimproverato con sguardo cinico e in molti mi hanno chiesto il significato. Ecco le domande frequenti: «di che ansia parli?», «a quale città ti riferisci?». Vorrei provare a offrire un rapido chiarimento. Anzitutto, come un vero ladro, confesso di aver rubato questa espressione all’eminente storico della filosofia Eugenio Garin, pur traducendola a modo mio.
Senza tanti giri di parole, dico fin da subito che l’epoca in cui viviamo non mi piace. È triste. Alzo gli occhi e vedo un cielo che suona l’ora dell’indifferenza per tutti. Nessuno escluso. Non si può fuggire. Il sistema ti riprende se ci provi e ti indirizza verso le più alte sfere dell’inganno: la globalizzazione, il mercato unico della follia, il nichilismo, la morte di dio. Il dialogo con la verità è stato interrotto da una «scimmia» che danza beata nei paesaggi del disincanto. Uno squadrone di atei è convinto che l’ideale, la speranza, la luce, anche solo la smorfia innocua dei bambini, o il disegno illuministico costruito a priori siano fattori di disturbo e andrebbero ripudiati in nome dell’immanenza. Abbiamo assassinato l’I have a dream e il Babbo Natale dei nostri figli perché non abbiamo più entusiasmo, gioia dell’altrove, desiderio di realizzare la giustizia a piccoli passi e raddrizzare, insieme, il legno storto dell’umanità. Del resto, per dirla con Owen, abbiamo rimosso «l’eterna reciprocità del pianto».
La parola non va oltre il suo dire, ma si sgretola nelle vetrine oscene del circo mediatico. La passione innata è stata sconfitta dall’orgia dell’utile (immagine, successo, moneta). L’amore eterno, immutabile, intenso nel sentimento e vissuto in due nelle carezze prolungate è oramai una finzione per gli spiriti inerti, flessibili o annoiati. Il sesso, ad esempio, è un’operazione meccanica svolta nelle notti del Duemila. L’arte viene sfiorata solo da chi siede sui marciapiedi, respira il vento della purezza e si lascia catturare dalle onde del mare con gli occhi «ansiosi» dell’ingenuo; gli altri, sempre più numerosi, si limitano invece a organizzare festival, eventi e ritirare premi. Le madri postmoderne avviano in modo maniacale le loro creature «al bel canto, al teatro e alla danza», con la speranza che diventino star. La scuola è un luogo di amministrazione e di numeri manovrati da funzionari del sapere. Le accademie hanno dimenticato il valore dei prati, del verde, delle panchine, degli incontri sporadici ove la cultura s’incrocia con l’ansia socratica della verità e magari con la barba lunga di chi coltiva il dono del gratuito. Un relativismo viscerale, inoltre, accompagna le strette ambizioni dei nuovi medici, avvocati, politici, ingegneri, produttori di illusioni. Persino il semplice atto di elemosina è puntualmente preceduto dall’«io». Si fa il bene non per il bene in sé ma per «la gloria degli uomini», com’è accaduto al problematico Padre Sergij di Tolstoj. Al fine di non scivolare nel pigro moralismo, l’«ultimo uomo» si è scordato della morale e versa in uno stato depressivo che invoca lo spegnimento della soggettività.
L’ansia di un’altra città, in breve, è una fresca reazione al nulla che ci pervade, una sfida moderna alle inquietudini dell’oggi. É quel bisogno di infinito che intende riaprire la partita con i decadentisti, gli storicisti e i fautori del pensiero debole. Un elogio della tensione, del silenzio, del primo mattino, del sublime, di un altro spazio, delle utopie impossibili, dell’«altra città» (fuori e dentro di noi).