Antonio Riboldi (1923-2017) è stato tra i vescovi più significativi che abbiamo avuto in Italia a partire dal secondo dopoguerra. Non è necessaria una penna vaticanista per ricordarci che il prete di frontiera, scomparso a 94 anni e figlio di una famiglia numerosa della Brianza, resterà uno dei volti simbolo della lotta contro la Camorra organizzata.
Il pontefice Paolo VI dovette avvistare in lui una miriade di talenti quando nel 1978 lo proclamò Vescovo tra le macerie del Belice. A don Antonio – così lo conoscevano nella zolla della Sicilia devastata dal terribile terremoto del 1968 – sarebbe toccato un percorso pastorale pieno di sfide: la più difficile il posto vacante della Diocesi di Acerra, alla periferia di Napoli.
Il 9 aprile 1978 Riboldi arrivò ad Acerra, fortino dei fedelissimi cutoliani e territorio martoriato da sparatorie, bagni di sangue e infiltrazioni camorristiche nella stessa vita politica. Passarono pochi mesi dalla visita del capo clan locale al nuovo Vescovo che non si fece intimidire, fu duro e cominciò dall’altare del Duomo di Acerra la battaglia più grande contro la nuova Camorra organizzata di Raffaele Cutolo.
Chi di noi non ricorda la messa in Cattedrale delle 11 della domenica mattina sempre gremita. Venivano ad ascoltare da qualsiasi parte le sue omelie – ne ho contate oltre mille nel ventennale del suo vescovado.
Nel giro di pochi anni Antonio Riboldi si guadagnò un forte consenso popolare e ruppe il silenzio omertoso che aleggiava sulla Terra dei Fuochi degli anni ’80. Ai suoi nemici assiepati ovunque, infiltrati anche nelle istituzioni locali, non doveva proprio andar giù che un prelato settentrionale godesse di troppa popolarità perché ’o paese assecondava il detto “Vescovi e buoi dei paesi tuoi”.
Quelli furono anni difficili e bui per il territorio. Monsignor Riboldi, sotto scorta, diventò un caso unico in Italia: battagliò contro la criminalità organizzata, bacchettò i politici corrotti della gradassa balena bianca, portò la Diocesi di Acerra ai massimi splendori, scese in campo per i diritti civili, fu difensore dei valori della famiglia cristiana e alfiere antiabortista, allevò i futuri Vescovi (Gennaro Pascarella e Giannino D’Alise), ebbe occhio di riguardo per i minori maltrattati, valorizzò la laicità, organizzò convegni diocesani con personalità ecclesiali come Martini e Tettamanzi, marciò ad Ottaviano contro “Don Raffaè” e, nel giorno della sepoltura del boss locale, scese in piazza a fermare i commercianti che stavano abbassando la saracinesca in segno di lutto.
Il bel libro Il Vescovo e la piovra del vaticanista Domenico Del Rio, del quale partecipai alla presentazione nel lontano 1990, documenta in maniera lucida il vescovo anticlan di quegli anni turbolenti.
Antonio Riboldi è stato un personaggio molto complesso ed essere confessore di tanti pentiti di camorra e mafia – lo stesso Cutolo chiese di incontrarlo – gli si ritorse contro con l’aggiunta della diffidenza della stampa locale di allora che lo accusò di manie di protagonismo. Riboldi andò avanti per la sua strada fatta di rose profumate e spine letali, in molti casi anche da solo, vestendo gli abiti nuovi del buon pastore contemporaneo: scendere al momento opportuno da altari e processioni per esporsi, prendere una posizione netta nella vita civile.
Riboldi è stato allo stesso tempo grande catechista di radice rosminiana, ineguagliabile oratore, figura mediatica di spicco, penna raffinata di estrazione cattolica, mediatore politico, il severo “don” della parrocchia sotto casa che sa leggerti dentro, precursore e interprete acuto del proprio tempo con la capacità di relazionarsi con il territorio in qualsiasi circostanza.
Resta l’amarezza di non averlo visto cardinale – dubbi e perplessità sul perché Karol Wojtyla non gli conferì l’alto titolo cardinalizio – anche se don Riboldi una volta scherzò così pubblicamente:
Preferisco stare con voi. Acerra è la mia casa. Sono un prete scomodo, se mi fanno cardinale mi spediscono a New York.
Napoli avrebbe beneficiato di un Riboldi cardinale, ai tempi in cui il porporato ombroso di Giordano lasciò troppi scheletri chiusi nell’armadio.
Oggi l’Italia è più vuota senza di lui, lo hanno capito anche in Vaticano, tanto che il messaggio di cordoglio di Papa Francesco ha lanciato un profondo segnale. Dopo Antonio Riboldi, la Diocesi di Acerra non ha avuto nessun successore del suo spessore. Non ci sono eredi.
Monsignor Antonio Riboldi resta patrimonio del Sud, della Terra dei Fuochi, dell’Italia tutta. C’è un’immagine in bianco e nero che mi piace ricordare, intravista nel suo studio una ventina d’anni fa: un giovane prete con un soprabito scuro tra le macerie del Belice. E noi che abbiamo condiviso direttamente con lui pezzi delle nostre vite, ci sentiamo tremendamente orfani.
Meglio ammazzato che scappato dalla camorra.
Lo rimpiangeremo.