Trasparenza e Merito. L'università che vogliamoVi racconto il reclutamento all’università dalla nascita dello stato italiano ad oggi. Contro il feudalesimo degli atenei.

Nel contesto attuale caratterizzato da un clima in cui il rapporto tra opinione pubblica, politica e università si è fatto sempre più teso, a seguito dei molti casi di ricorsi alla giustizia ammini...

Nel contesto attuale caratterizzato da un clima in cui il rapporto tra opinione pubblica, politica e università si è fatto sempre più teso, a seguito dei molti casi di ricorsi alla giustizia amministrativa, accolti con tanto di sentenze (in alcuni casi anche definitive) che hanno certificato palesi irregolarità, fomentato da articoli di giornale e servizi televisivi, che hanno messo in evidenza la natura spesso corporativa, feudale, baronale, familiare, nepotista, clientelare, e in alcuni casi addirittura pseudo-mafiosa, mi pare utile affrontare, con un taglio storico e quindi nel lungo periodo, la questione del reclutamento accademico e di quella che, a torto, è stata chiamata la “carriera accademica”.

Alla nascita dello stato italiano fu fissato un criterio di fondo, un modello, per il reclutamento dei docenti dal quale il sistema universitario italiano non si è mai, sostanzialmente, discostato, fino ai nostri giorni.

Questo modello nacque con la legge Casati (1859) che impresse al sistema universitario nazionale un carattere apparentemente statalista e accentrato (controllato dalla persona stessa del ministro e dagli alti funzionari ministeriali), secondo la prassi teorica del concorso pubblico, contrapposta alla chiamata diretta (in uso nei sistemi d’oltralpe, di eccellenza e per chiamata diretta), ma che, in realtà, si prestava al gioco del compromesso tra politica e accademia, e alle concessioni ai singoli atenei decentrati.

La legge Casati prevedeva due modalità di reclutamento: la chiamata per chiara fama (di nomina politica), ben più rara, e il concorso pubblico, più diffuso. La caratteristica principale era la nomina delle commissioni (il cui numero di membri poteva andare da cinque a nove) da parte del ministero e non da parte della comunità scientifica e accademica (alla quale, teoricamente, era riservata la scelta di un solo membro). Inoltre la modalità di selezione avveniva in duplice forma: per titoli, con una commissione di nomina regia che valutava le pubblicazioni, o per esami, nella forma del colloquio tra i vari candidati e i commissari.

Appare interessante notare che già dopo una decina d’anni dall’applicazione della legge, il concorso finiva per essere qualificato come un semplice “espediente”, ma in realtà, per procedere alla nomina diretta del vincitore, occorreva sentire gli orientamenti delle facoltà. Successivamente, dal 1884 in poi, toccò alla sede e alla facoltà interessata dalla vacanza del posto, provvedere alla designazione di una rosa di commissari, il ché contribuì a limitare un poco i poteri ministeriali, prestando il fianco ad un inizio di abusi locali. Ancora qualche anno dopo si passò ad un maggiore grado di autonomia delle sedi, secondo cui ogni facoltà avrebbe avuto il diritto di proporre cinque nomi, tra i quali il ministro avrebbe poi scelto i commissari.

Agli inizi del Novecento venne introdotta, per la prima volta, la possibilità di ricusazione di un commissario da parte di un concorrente. Questo particolare mette in evidenza un aspetto che poi risulta essere una costante nei modelli di reclutamento dall’unità ad oggi: ogni procedura, che fosse il concorso per titoli, o la prova scritta di esame, era comunque contestabile, spesso per vizi formali.

Fu solo dopo dopo la Prima guerra che fu adottato, per la prima volta, il criterio del “parziale” sorteggio della commissione, ovvero di due membri su cinque. Ancora maggiori furono i cambiamenti apportati al meccanismo, consolidato precedente, da parte della Riforma Gentile negli anni Venti: accentramento assoluto del potere sul reclutamento da parte del ministro, con due categorie di docenti: di ruolo, a carico dello stato, e incaricati, a carico degli atenei. Si aggiungeva poi il riferimento al requisito della condotta morale e politica senza le quali i candidati non avrebbero potuto essere ammessi ai concorsi e tanto meno nominati professori.

Dopo la fine del regime fascista, a guerra ancora in corso, può essere interessante riportare un aneddoto che la dice lunga sui reali metodi, sbrigativi e sommari, di nomina di nuovi docenti e dei criteri di selezione usati dalle commissioni in vigore, in particolare, presso gli atenei siciliani.

“Una mattina del Novembre 1943, al pilastro di sinistra del portale della Università di Palermo fu affisso un foglietto dattiloscritto che attirò la curiosità dei passanti. Per la storia il foglio diceva testualmente: “Avviso: Coloro che desiderano conseguire la nomina a professore di ruolo nelle Università Siciliane possono presentare, non più tardi del 28 Novembre corrente, regolare domanda al Rettore di questa Università corredata da un curriculum vitae e da quegli altri titoli che essi riterranno utili per il giudizio che dovrà essere formulato da apposite commissioni esaminatrici. Firmato: Il Rettore”. (…) Non era uno scherzo, come alcuno credette.” (Bruno Lavagnini, Vera istoria degli Am-professori, in “Belfagor”, n. 2, 1947, p. 624).

Agli inizi degli anni Cinquanta furono apportati importanti modifiche alla legislazione sul reclutamento, pur rimanendo sempre nell’ambito dei precedenti indirizzi post-unitari e liberali, con riferimento normativo al 1933: si introdusse l’elettività di rettori e presidi di facoltà (che doveva comunque essere ratificata con decreto ministeriale) e venne creata la categoria dei “professori incaricati delle funzioni di straordinario”, cioè a dire docenti né straordinari, né incaricati, ma in qualche modo parcheggiati in un ruolo. Era chiaramente un meccanismo di pesi e misure che implicava, sostanzialmente, due cose: mantenere forte il potere di pressione locale per la gestione degli atenei e per la nomina delle commissioni, da un lato, e stabilizzare un gran numero di docenti, creando consenso, dall’altro.

La legge 439 (1954) lasciava inalterato, anzi rafforzava, il criterio delle commissioni votate dalle facoltà. E’ in questo contesto e in questo periodo che negli atenei italiani si incrementava, numericamente, a dismisura, la figura del cosiddetto assistente “volontario”, che spesso coincideva con l’ineffabile “cultore della materia”. Il rapporto tra docente e “allievo” collaboratore, in questo caso, non si discostava molto da quello in uso nel feudalesimo e implicava, senza che fossero sancite da alcun regolamento scritto, servizi di varia natura, svolti formalmente a titolo gratuito: la più “istituzionale” delle attività di competenza era, ovviamente, quella di stare accanto al docente “maestro” ad ogni sessione d’esame, redigendo gli elenchi dei candidati, provvedendo alla compilazione degli “statini” e dei verbali, a volte interrogando i candidati e dando il voto all’esame, ma erano previste prestazioni “extra”, quali svolgere ricerche per suo conto in biblioteche e archivi storici o notarili, correggere con diligenza, in sua vece, le bozze delle pubblicazioni, essere immancabilmente presente alle sue lezioni e alle sue conferenze e convegni in qualunque parte d’Italia si svolgessero, a spese proprie, essere disponibile per un puntuale servizio di segreteria, fotocopie, spesa, caffè, e via dicendo.

Era soprattutto questa tipologia (se pure in alcuni casi dotata anche di brillante intelligenza e potenziale credibilità scientifica) quella che, lentamente, diede vita alla figura dell’assistente “ordinario”, attraverso la prassi del concorso pubblico, quindi con la Gazzetta ufficiale, ma in realtà pilotata e utilizzata privatamente da commissioni nominate, con sorteggio apparente, nei vari atenei e ratificate dai rettori, sulla base dell’esigenza di lavoro, didattica e di ricerca, di singoli docenti particolarmente potenti in ambito nazionale o locale, i cosiddetti “baroni”.

E’ pur vero che, a garanzia del presunto carattere pubblico della selezione da operare, era previsto dalle norme che per ogni posto a concorso si dovessero indicare tre idonei nominati a pari merito in un rigoroso ordine alfabetico e che soltanto in quella terna il medesimo “barone” potesse scegliere e far “chiamare” dalla facoltà, a concorso concluso, il soggetto predestinato. Spesso accadeva che il “barone”, se avesse altri allievi o collaboratori altrettanto meritevoli, facendoli “ternare” li collocava in riserva per eventuali altre “chiamate” in un prossimo futuro, in modo da ampliare la sua “scuola accademica” o, riuscendoci, per farli “chiamare” da colleghi della sua stessa materia di altri atenei.

Questa dinamica, consolidatasi dal dopoguerra in poi, metteva in piedi un meccanismo di auto-riproduzione di un sistema universitario chiuso, geloso delle sue prerogative e dei suoi tradizionali privilegi. Il sistema era quello della cosiddetta “cooptazione”, cioè a dire fondato sull’operazione che permetteva ad un docente o a un gruppo di docenti, ipso facto, di immettere nella pubblica amministrazione, a pieno titolo , ma con un atto sovrano perpetrato attraverso un apparente concorso e selezione pubblica, il soggetto scelto.

Un ceto accademico baronale quantitativamente molto esiguo, poco più di qualche centinaia – al massimo un migliaio – di personaggi che si conoscevano e si incensavano reciprocamente anche al di là delle loro rispettive aree disciplinari, presidiava con tenacia la sua presunzione di superiorità scientifica e perfino morale, per quanto fosse abituato a considerare normativi e sacrali i suoi arbitrii, si mostrava comunque capace di garantire ad un alto livello la qualità complessiva della corporazione accademica.

La normativa allora vigente vincolava la prestazione di lavoro dell’assistente, volontario o ordinario che fosse, ad un asimmetrico rapporto fiduciario. Venutagli meno la fiducia del “maestro”, l’assistente rischiava il licenziamento in tronco. Questo non accadeva praticamente mai, perché i posti c’erano, i fondi pure, e il sistema si autoalimentava costantemente. Certo, in rari casi del genere di licenziamento (come abbiamo detto la possibilità di ricusare un commissario e di contestare la regolarità di un concorso apparentemente pubblico era stata già sancita da un pezzo), data la difficoltà di motivare con inoppugnabili argomenti la proposta di allontanamento, l’operazione burocratica da compiere non sarebbe stata facile e avrebbe certamente prodotto un lungo contenzioso destinato a consumarsi senza esiti certi nei tribunali amministrativi. In ogni caso, anche se fosse uscito vincente dal contenzioso, il soggetto in questione, isolato e ostracizzato dall’ambiente, non avrebbe più avuto un futuro universitario. Chi avesse osato mettere in discussione le decisioni di un membro importante (“barone”) della comunità scientifica avrebbe leso il diritto all’autorevolezza (in pratica gli si sarebbe imposta l’umiliazione di “non contare”) violando un costume che, sulla base di un comune interesse collegialmente riconosciuto e tutelato, vincolava ciascun membro della corporazione a riconoscere i privilegi di cui egli era titolare a tutti gli altri suoi colleghi. In poche parole vigeva il principio “oggi a te, domani a me” che rendeva utile e ragionevole, anzi imponeva letteralmente, il non pestarsi i piedi (almeno fintanto che gli interessi personali non fossero diventati così forti da indurre a sfidare le regole).

Questo sistema, nella sua essenza, al di là delle fumose affermazioni teoriche, fu solamente scalfito dal fenomeno della cosiddetta università di massa, sviluppatosi impetuosamente dopo la metà degli anni Sessanta, e in particolare dopo il Sessantotto.

La legge 585 (1966) introduceva la figura del professore “aggregato”. Ai cosiddetti professori aggregati poteva essere affidata, al di là della normale funzione di insegnamento istituzionale, la direzione di un settore di ricerca. Ma ciò che conferiva a questa figura una particolare dignità accademica era la possibilità di sedere insieme agli ordinari nei consigli di facoltà, seppure con voto consultivo. L’esame per diventare “aggregati” prevedeva una discussione dei titoli scientifici e una lezione, ma si trattava, ancora una volta, di una condizione accademica alla quale si accedeva con un particolare concorso i cui risultati erano rigorosamente predeterminati a favore di soggetti che talvolta avrebbero potuto essere degli autentici studiosi e che, più spesso, erano “aiuti” dei baroni distintisi per particolari qualità di vassallaggio.

La legge 924 (1970) sospendeva i concorsi a cattedra mentre la legge 766 (1973) sanciva, nuovamente, il criterio teorico del sorteggio. Questi provvedimenti “normalizzanti”, fatti sull’onda della contestazione studentesca, altro non furono che un’abile sintesi di astuzia conservatrice e di audacia demagogica, dosandole nella perfetta logica del potere. Prendendo atto delle forti resistenze del fronte del tradizionale baronaggio (che aveva una sua robusta presenza in parlamento, articolata trasversalmente in tutti i partiti dalla destra alla sinistra), si eluse la grande questione della riforma organica dell’università, e in particolare del reclutamento, che avrebbe dovuto investire sia l’assetto dello stato giuridico che l’organizzazione della ricerca e della didattica, e ci si limitò piuttosto ad arginare le fibrillazioni prodotte nel sistema dal Sessantotto, avallando e parzialmente accogliendo le istanze di “democratizzazione”. Queste misure, in realtà, presentavano alcune novità che andavano in direzione di una alleanza tra i baroni di nuova generazione, chiamiamoli pure “democratici”, e il vastissimo mondo dei precari e subalterni che si erano legati alla contestazione. Ci fu , concretamente, un incredibile ampliamento dell’organico, che non aveva precedenti nella storia del reclutamento universitario: furono bandite migliaia di nuovi posti e fu cancellato il ruolo dei professori “aggregati”, innalzati di colpo, ope legis, alla condizione di strutturati ordinari. Sul versante del reclutamento, per dare una parvenza di democraticità e trasparenza maggiore, fu introdotta una normativa di concorsi nazionali e non più locali, per raggruppamenti disciplinari, gestiti da commissioni composte di cinque membri “sorteggiati” nelle rispettive comunità scientifiche.

Questo meccanismo fu sancito con regolarità e meglio definito con la legge 33 (1979). Nascevano inoltre nuove figure, i cosiddetti assegnisti e contrattisti, dando così vita ad una massa crescente di neolaureati, aspiranti alla carriera accademica, selezionati pur sempre con modalità assolutamente arbitrarie come accadeva per i concorsi. Questi soggetti avrebbero dovuto occuparsi di studio e ricerca ma , di norma, vennero impiegati nelle diverse attività svolte abitualmente dagli assistenti volontari o ordinari precedenti, cioè per servizi privati ai docenti, quindi a fare lezioni, o a sbrigare pratiche per i docenti nelle segreterie amministrative, nelle biblioteche.

La legge 382 (1980) ritornava , in teoria, all’equilibrio dell’elezione mista della commissione, bilanciato da nomina e sorteggio. E qui, ad esempio, è utile raccontare l’aneddoto, ben noto agli addetti ai lavori, del “mistero delle palle”. Formalmente, si trattava di un’operazione pubblica alla quale la normativa assicurava la massima trasparenza, con tanto di controllo di un funzionario-notaio e con l’automatismo di una macchina. Venivano inseriti i nomi dei sorteggiabili, ciascuno racchiuso in una piccola palla di plastica metallizzata dentro il contenitore, appunto sorteggiate. A quanto pare qualcuno aveva scoperto che, nello scegliere, la macchina preferiva le palle fredde, meglio se ghiacciate. Sicché poteva darsi che qualcuno degli addetti all’operazione provvedesse a far ghiacciare in un congelatore proprio quelle corrispondenti al tipo di commissione richiesta da un segreto committente.

Come si è detto, aneddoti a parte, non era altro che una normalizzazione e stabilizzazione dei meccanismi già oliati. La molteplicità di figure alle quali la 382 faceva riferimento mostra chiaramente il suo carattere di strumento di sistemazione e aggiustamento di una serie di situazioni precedenti legate all’eccessiva espansione, in termini numerici e in termini di spesa pubblica, del sistema universitario italiano. In primis quella enorme massa di docenti subalterni, assistenti, incaricati di contratti di insegnamento, ricercatori, tecnici laureati, che accedettero, grazie ai giudizi di “idoneità”, alla condizione dei 15 mila professori associati prefissati in organico dalla legge e che dovettero timbrare il cartellino cioè pagare, ricambiare con reverenza, il fatto di aver beneficiato di una specie di ope legis mascherata (con grande profitto per le tante case editrici messe su per lavorare a pieno regime e sfornare letteralmente monografie ad hoc, messe su alla meno peggio, per queste “procedure selettive”). Le commissioni di questo concorsone nazionale elette dalle “comunità scientifiche”, corrispondenti ai raggruppamenti disciplinari dei posti a concorso, con dinamiche di nomina e presunto sorteggio, si rifacevano direttamente al manuale Cencelli della lottizzazione politica e della peggiore partitocrazia consociativa. Per la distribuzione dei posti, si aggiungeva dunque alla scelta personale e arbitraria del singolo “barone”, spesso mascherata con il pretesto dello jus loci e con l’aurea della sempre legittima discrezionalità , il dosaggio e l’equilibrismo con questa o quella parte politica di riferimento.

A partire dagli anni Novanta in poi , in concomitanza con la post-moderna trasformazione genetica dei partiti, sempre più orientati alla cosiddetta legge del mercato, anche i meccanismi di reclutamento universitario, pur sempre in mano ai soliti gruppi di potentati (locali , nazionali o scientifico-disciplinari), hanno ceduto alla logica del presunto merito, della produttività, dell’attività economica, alla domanda dell’industria, della globalizzazione capitalistica, del management, del marketing, attraverso la cosiddetta valutazione biblio-metrica e burocratica. Si è passati così alle “merito-baronie” e poi alle “tecno-baronie”.

In questo passaggio importante ha avuto un ruolo, significativo, il processo di attuazione dell’autonomia, ovvero la responsabilizzazione finanziaria degli atenei, e dei loro budget, che conferiva a ciascuno di loro di decidere come allocare le proprie risorse, di fondi, ma anche umane, quindi di reclutamento, prima con la legge 168 (1989) e poi ancor di più con la legge 537 (1993). A piena valorizzazione dell’autonomia , e quindi del cosiddetto “mercato” universitario, la legge 210 (1998) trasformava i concorsi nazionali in valutazioni comparative locali.

In poche parole, si tornava al via, al punto di partenza: una specie di ritorno all’antico sistema concorsuale pre-sessantottino. Di fatto un decentramento delle risorse che però ha portato al taglio drastico delle stesse, in concomitanza con i tempi sempre più bui dal punto di vista economico-sociale del paese.

La retorica del merito, apparentemente anti-baronale, ma che in realtà , demagogicamente, mascherava soltanto i nuovi metodi adottati dalle baronie stesse (quelle che avevano saputo mantenere un canale privilegiato con le forze politiche succedutisi, di volta in volta, al governo), ha avuto il suo apice con la legge 240 (2010). Sotto la spada di Damocle di un contratto non più a tempo indeterminato, il ricercatore si addentrava nei meandri del reclutamento e, nel tentativo di non essere impietosamente espulso dal sistema affidato alle nuove regole del mercato, veniva sottoposto ad un complesso sistema di procedure di valutazione burocratica abilitante (portato alle estreme conseguenze con la nascita dell’Anvur, Agenzia nazionale di valutazione, e con l’istituzione dell’Asn, Abilitazione scientifica nazionale), apparentemente più oggettivo, fondato su parametri numerici e quindi teoricamente impersonale, ma in realtà usato per mascherare, dietro l’anonimato della valutazione impersonale, veri e propri regolamenti di conti fra fazioni.

Come si può evincere, plasticamente, le ricette messe in atto dalla riforma del 2010 in poi, in apparente contrapposizione ma in realtà in concreta continuità con le riforme passate, brandite con gli slogan del merito e della valutazione permanente, non hanno apportato alcun miglioramento alla trasparenza delle procedure di reclutamento. I concorsi un tempo erano chiamati direttamente senza alcun pudore, nel disprezzo delle normative, poi, successivamente, sono stati “blindati” per far sì che il loro esito fosse, sempre, o quasi, quello previsto: far vincere chi deve vincere.

I dati passati e recenti, sul chi decide il reclutamento, alla luce di questa ricostruzione storica delle legislazioni all’università, e sulla base di un sondaggio pubblicato su “Roars”, parlano chiaro: per l’ingresso dei nuovi docenti, quindi per la fase iniziale del cursus honorum, ma anche per gli avanzamenti di carriera, incidono, almeno in Italia (e a differenza del caso tedesco che potrebbe essere preso a modello contrapposto), le facoltà e i dipartimenti per circa un 32-35%, il senato accademico e il consiglio docenti per circa il 33-35%, i singoli docenti “baroni” per circa il 22-25%.

In definitiva, nonostante un secolo di riforme tentate e mancate, i concorsi vinti da candidati senza alcuna qualifica accademica, le promozioni e gli scorrimenti ope legis , gli abusi e le irregolarità a vario livello, con nomine fatte al di fuori dei regolamenti, sono un numero considerevole. E lo dimostra un semplice controllo sul motore di ricerca al sito della Giustizia amministrativa , usando come parole chiave, in contemporanea, “università”, “ricorso”, “commissioni”, che fornisce questi interessanti dati: si passa dai 37 casi di procedimenti aperti nel 2006, ai 274 del 2008, ai 815 del 2009, ai 1325 del 2012, fino a toccare l’apice di 2188 casi nel 2014. E negli ultimi anni ci attestiamo, nuovamente, sopra i duemila.

Di recente , dunque, è accaduto un cambiamento sostanziale, un fatto non riscontrabile in precedenza, ovvero il caso diffuso di denunce, ricorsi, e di concorsi annullati non dall’università stessa, ma dalle sentenze dei tribunali della giustizia amministrativa. E’ accaduto nel caso di singoli concorsi universitari in vari atenei, è accaduto nel caso della procedura di Abilitazione scientifica nazionale. Questo meccanismo ha innescato una maggiore consapevolezza critica da parte dei partecipanti al reclutamento, e lascia ben sperare per un sostanziale e concreto cambiamento in un futuro prossimo. Ma per far ciò occorre una attenzione alta dell’opinione pubblica, una maggiore sensibilità di intervento delle forze politiche, un controllo e una presa di posizione sul piano dell’etica pubblica, da parte delle Istituzioni.

Fonti: Ringrazio il prof. Giuseppe Carlo Marino per le bozze di un lavoro in preparazione che stiamo scrivendo insieme. Ringrazio gli amici di “Roars” per alcuni articoli sul reclutamento. Ho desunto informazioni e dati sulle legislazioni universitarie anche da: L’Università tra Otto e Novecento: i modelli europei e il caso italiano, a cura di Ilaria Porciani, Napoli, 1994; Università e stato nell’Italia liberale, a cura di I. Porciani, M. Moretti, in Scienza e politica, n. 3, 1990; Pier Paolo Giglioli, Baroni e burocrati. Il ceto accademico italiano, Bologna, 1979; Antonio Santoni Rugiu, Chiarissimi e Magnifici. Il professore nell’università italiana (dal 1700 al 2000), Firenze, 1991; Gabriella Ciampi, Il governo della scuola nello stato post-unitario, Milano, 1983.

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