Mentre ci si avvia verso gli ultimi giorni di campagna elettorale per il Parlamento e per due fra le regioni più importanti d’Italia, cala il silenzio sui sondaggi. È un peccato, perché mentre sarebbe utile avere contezza dell’orientamento dell’elettorato sino al secondo prima del voto, gioverebbe, invece, alle stanche orecchie degli elettori abbassare il volume delle offerte “last minute” di tanta politica. Le ragioni di magone sono tante e tutte rilevanti. Intanto i toni si alzano ogni giorno e, mentre la discussione generale ruota attorno a temi simbolo, come l’immigrazione e il taglio delle tasse, il confronto sul merito scema per lasciar spazio alla pancia e alla battuta ad effetto, al rimbeccarsi sui social network e al rinfacciare all’avversario ogni colpa, esclusa – forse – quella di aver offerto il frutto proibito ad Eva. Da questo punto di vista, andrebbero seguite con attenzione le risultanze dell’indice di ostilità creato da “Parole ostili”, una community di oltre 300 comunicatori e blogger, che ha redatto una carta con 10 princìpi utili a ridefinire lo stile con cui stare in rete, e il “barometro dell’odio” elaborato da Amnesty Italia, volto a monitorare l’utilizzo di hate speech da parte delle forze politiche. Come evidenzia il Corriere della Sera, inoltre, sembrano scomparsi dall’agenda politica tutta una serie di dossier fondamentali per le scelte che dovranno esser fatte per il Paese nei prossimi anni come la legalità, la formazione e l’università, il turismo, la lotta alla povertà o, aggiungo, l’inclusione delle persone più fragili, come le persone con disabilità. Non basta: le proposte avanzate dalle forze politiche molto raramente godono di coperture finanziarie solide o sono, spesso, basate su entrate allo stato ipotetiche e aleatorie, o, peggio ancora, sulle ennesime politiche di spending review all’amatriciana, imperniate su tagli e non su efficientamenti reali. Un ulteriore elemento da non trascurare, infine, è quello relativo alle candidature presentate. Spuntano come funghi, trasversalmente, figure improbabili: riciclati, transfughi, facciatostisti, girovaghi, imputati, photoshoppisti, ras, caporioni, assessori regionali in carica, e così via. Personaggi quantomeno discutibili dal punto di vista dell’opportunità politica e che evidentemente portano in dote voti o rappresentano il risultato di accordi politici sui territori. Tutto legittimo e tutto perfettamente comprensibile, per carità. Ma che sconta l’inesistenza di efficaci modalità di selezione del personale politico a favore di procedure di cooptazione dall’alto. E che, allo stesso tempo, fotografa, assieme ai toni di questa campagna, la distanza tra ciò che dovrebbe essere e ciò che, nei fatti, è. Tra la sbandierata voglia di cambiamento, di novità, di rendere i cittadini protagonisti della politica e la necessità di fare i conti con la realtà.
Per parafrasare Mao, la politica non è un pranzo di gala: è cosa risaputa e le anime candide hanno spesso vita breve nel tritacarne della lotta politica. Nulla di veramente nuovo, ovviamente: c’è però molto su cui riflettere in merito allo stato delle cose e ai perché della percentuale, sempre alta, di coloro che si dichiarano indecisi e che, probabilmente, non si recheranno alle urne. Se a tutto ciò si aggiunge una legge elettorale dai mille difetti e che limita fortemente le scelte degli elettori (ma perché non ammettere il voto disgiunto, poi?), c’è di che preoccuparsi. Bene ha fatto Michele Ainis a ricordare su Repubblica che, anche a fronte di una acclarata incertezza politica, “lo Stato risiede nelle sue strutture profonde“: nella magistratura, nelle forze dell’ordine, nella burocrazia. Anche nell’improbabile caso di un nuovo, repentino ritorno alle urne, la Repubblica non chiuderà i battenti e l’ordinaria amministrazione continuerà senza troppi scossoni. Detto questo, la scelta della rappresentanza politica, a tutti i livelli, è uno dei passaggi fondamentali della vita pubblica di un Paese e le condizioni in cui essa si svolge non sono ottimali. Certo, diciamocelo francamente: non lo sono mai. Ed è certamente un’esagerazione considerare questa campagna elettorale la più brutta di sempre. C’è da dire, però, che se gli elettori hanno sempre ragione, essi hanno il dovere di esercitare la sovranità che appartiene loro, come recita limpidamente l’articolo 1 della nostra carta costituzionale, con una buona dose di sale in zucca. E di buon senso. Ad esempio compiendo una scelta che privilegi, all’interno della staccionata in cui forzatamente ci si muove, il profilo e la statura delle donne e degli uomini candidati, che dia spazio alle doti di equilibrio che essi abbiano dimostrato di possedere. O che dichiarino, credibilmente, di poter esercitare. Anche aldilà delle appartenenze politiche, soprattutto nelle competizioni all’interno dei collegi uninominali. Ed anche a fronte della concreta possibilità di depositare una scheda bianca ove l’offerta bloccata contenga polpette indigeribili o, addirittura, avvelenate. No, non è la soluzione a tutti i problemi, tenendo sempre bene a mente che le tentazioni qualunquiste cozzano con la fatica quotidiana del governare. La fiducia in politica, tuttavia, è merce rara che va guadagnata giorno per giorno, con la propria storia. E quella storia va riscontrata nella cabina elettorale, dove né Dio né Stalin devono metter bocca.