Il Festival di Sanremo diretto da Claudio Baglioni ha la sua canzone vincitrice: Non mi avete fatto niente di Fabrizio Moro e Ermal Meta. Come avrà fatto il palco dell’Ariston a sopravvivere al brutto e cattivo tempo tra Prima e Seconda Repubblica?
Il merito è lo specchio ingombrante del Festival in cui è riflessa l’Italia e le sue incertezze, contraddizioni, il disorientamento di non vedere più ciascuno al proprio posto.
Il plagio di Moro-Meta, che li ha messi seriamente a rischio eliminazione, rispecchia i programmi elettorali che palleggiano scopiazzati dai populisti ai fricchettoni della politica italiana.
Se ai tempi dei dudduddù daddaddà non ci saremmo mai aspettati un Baglioni in veste di mattatore o direttore artistico, oggi – per dirla alla Fiorello – siamo pronti a mettere in conto: “Se il 4 marzo vince il toy boy di Orietta Berti, si va tutti a casa.”
Fino allo scioglimento delle Camere da parte del Presidente della Repubbica, 4 marzo era il titolo di una poesia musicata di Lucio Dalla. Oggi la stessa data corrisponde alla scelta del futuro prossimo del Belpaese: ci toccherà rimpiazzare l’inno di Mameli con Il congiuntivo di Lorenzo Baglioni, il brano più spiritoso della Nuove Proposte?
Mentre al Festival di Sanremo l’abbaglio è stato scambiare Il Volo per i Tre Tenori, fuori dall’Ariston la fregatura è continuare a scambiare il piazzista per lo statista.
Si stava meglio quando si stava peggio? Sarà per questo che il popolo social ha fatto schizzare nei trend topic Pippo Baudo, dopo la lettura patetica ed emozionante della sua dichiarazione d’amore a San-Remo.
Elio e le storie tese avevano aperto la Seconda Repubblica sanremese piazzandosi al primi posto con La Terra dei cachi e oggi la chiudono in ultima posizione con Arrivedorci.
Se la rideranno i miei colleghi per cui Elio e compagnia bella possono ritirarsi perché non hanno più niente da dire. Piuttosto dovrebbero farsi un esame di coscienza ed interrogarsi su come mai un certo tipo di giornalismo, incluso quello musicale, si sia ridotto a vallettopoli dei pubblicitari.
Da una parte l’Italia ignora le morti bianche, dall’altra i ragazzi di Lo Stato Sociale, vincitori morali di questo Festival, indossano i nomi degli operai che a singhiozzo perdono il lavoro e fanno ballare una vecchia come una girandola impazzita, saccheggiando i numeri dell’ISTAT per cui l’Italia è un Paese per vecchi.
Il disorientamento svanisce quando all’Ariston ciascuno torna al proprio posto: Claudio Baglioni fa il cantautore e duetta magnificamente sul palco dell’Ariston; Pierfrancesco Favino si impossessa della sua statura attoriale attraverso il monologo dedicato ai migranti; Michelle Hunziker da prima donna si fa conduttrice del baraccone festivaliero; Milva viene celebrata con un meritato premio alla carriera.
Quanto tempo ci vorrà per dimenticare il 68° Festival della Canzone Italiana?
Il tempo di rileggere con attenzione Mille giorni di te e di me di Baglioni e ammettere che testi intensi come questo, snobbati dagli intellettuali noiosi, non si fabbricano più in Italia.