Non aprite quelle porteIl disagio in treno dalla A alla Z: B di bicicletta

Milano, una sera di febbraio, un giorno uguale a tanti altri. Aspetto il treno per tornare a casa dal lavoro e il treno, come al solito, non arriva. Cinque minuti, dieci minuti, un quarto d’ora di ...

Milano, una sera di febbraio, un giorno uguale a tanti altri. Aspetto il treno per tornare a casa dal lavoro e il treno, come al solito, non arriva. Cinque minuti, dieci minuti, un quarto d’ora di ritardo. Mentre la muffa comincia a ricoprire il mio corpo, una voce metallica annuncia un convoglio in arrivo. Non è il mio.

Per un attimo accarezzo l’idea di mettermi a piangere – sono stanca, c’è buio, vengo da una giornata difficile cominciata con soppressioni varie per un guasto agli impianti nella stazione di Sailcavolo e, per citare uno dei film più amati della storia del cinema, in Europa la gente muore di fame –, ma un rigurgito di dignità mi impone di tenere duro e mi suggerisce che, se proprio devo sfogarmi, è meglio battere con violenza sui tasti di un computer che inondare la banchina di lacrime.

Nasce così questa raccolta di istantanee, una sorta di dizionario semiserio dalla A alla Z (qui la A) delle mie disavventure in treno: sono le gioie (poche) e i dolori (tanti) dei miei spostamenti quotidiani, le delusioni e le insidie, le astuzie per non soccombere di fronte ai disagi. Perché anche se partire è un po’ morire, sopravvivere – per fortuna – si può.

B di bicicletta

Bella la mobilità sostenibile, per carità. Bellissima. Ma se c’è una cosa che in treno divide i viaggiatori più delle acque del Mar Rosso ai tempi di Mosè, è proprio l’uso che si fa di questa mobilità sostenibile nella sua espressione più tecnologica e temuta: la bicicletta pieghevole. Uno strumento del demonio, amato da chi lo usa ma odiato da chi lo subisce. Parto dai primi, i ciclisti. Innanzitutto devo ammettere che li ammiro molto per la voglia di pedalare e la tenacia nel portarsi appresso il mezzo, come le lumachine con le loro casette; arrivano in stazione tutti pimpanti, piegano il piegabile e, quando sopraggiunge il treno, salgono felici con il loro metro cubo di ferraglia (OK, è meno, ma sto parlando di volumi percepiti). Poi però cominciano i problemi: dove mettere questo metro cubo? Non tutti i treni hanno la carrozza apposita e comunque, anche quando c’è, non tutti i ciclisti la usano, perché tanto, dai, mica è una bicicletta vera. Così spesso scelgono il corridoio, sopportando stoici – e forse anche con un certo sadico godimento – le occhiate cariche di odio degli sventurati a cui è toccato lo stesso corridoio. Quelle biciclette che fino a un attimo prima salvavano il pianeta, infatti, una volte posate sul pavimento del treno diventano armi improprie e colpiscono a tradimento polpacci e ginocchia innocenti. Occupano spazio, feriscono, rallentano il flusso di salita/discesa, impicciano i movimenti. Siano benedette per la loro utilità sociale, ma siano anche maledette per non avere le dimensioni di un modellino in scala 1:23. Dov’è la scienza quando serve? Perché non sono ancora stati inventati gli smaterializzatori?

Tempo fa ho letto in un libro, forse di Valérie Tong Cuong ma non ne sono sicura, che quando si viaggia bisogna scegliere da che parte stare e io sono d’accordo. Se si è pedoni, si è pedoni. Se si è ciclisti, si è ciclisti. Il viaggiatore ibrido è visto di malocchio, tranne ovviamente dagli altri viaggiatori ibridi, o forse anche da loro, chissà. Il peggio lo si raggiunge quando costui, o costei, decide di mettere la bicicletta nella cappelliera – forata – sopra i sedili. A parte le mosse incaute con cui rischia di decapitare l’infelice seduto in traiettoria, c’è poi il problema della caduta della ghiaia mista a sporcizia rimasta incastrata nelle ruote. Tu sei lì, tranquillo, a farti i fatti tuoi ed ecco che due etti di muschio ben stagionato si posano sulla manica del tuo maglione. Che gioia. Stessa cosa i monopattini, che danno meno fastidio se posati a terra, ma messi nella cappelliera creano il medesimo effetto pioggerella, o colata di fango in caso di maltempo.

Ho visto i più arditi, poi, portare in treno addirittura le biciclette del bike-sharing, incuranti del loro volume e, soprattutto, del fatto che non possono, o non potrebbero, lasciare la città. Ma sono dettagli. Cosa contano qualche regola violata, due o tre polpacci infilzati, un ginocchio scassato, tre calze smagliate e una lavata di capo di fronte alla salvaguardia dell’ambiente e della forma fisica?

Divide più la bicicletta della spada, recita grosso modo un famoso detto. E nella giungla quotidiana del pendolare non c’è niente di più vero.

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