Sulla vicenda di Silvia Romano, giovane cooperante rapita in Kenya, la prima buona notizia è quella relativa al fatto che sia ancora viva. Inutile immaginare lo stato di angoscia e preoccupazione dei genitori e degli amici: l’unico auspicio è che torni presto all’affetto dei suoi cari sana e salva. Si prova certamente grande tristezza – disgusto, sarebbe meglio dire – di fronte all’ondata di ignobili insulti a Silvia sui social network, il cui leitmotiv è il solito: se l’è andata a cercare. Vuoi aiutare i fragili del mondo? Non andare lontano e resta a casa tua, ché il daffare non manca. Come se la voglia di dare debba esser limitata dentro i confini nazionali. Se è inutile tentare di spiegare a costoro i rudimenti della cooperazione internazionale allo sviluppo, ha fatto intanto scalpore un “uno-due” di Massimo Gramellini, giornalista, scrittore e conduttore televisivo, firma notissima della stampa Italiana. La sua rubrica sul Corriere del 22 novembre ha scatenato una valanga di critiche, imputando a Gramellini la colpa di voler gettare su Silvia le medesime accuse di quelli che lui stesso definisce “gabbiani da tastiera”, in particolare per il suo incipit, che recitava: “Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto”. Sostiene Gramellini nella sua replica del giorno seguente (“La riscrivo”) che “i social hanno instaurato la dittatura dell’impulso, che porta a linciare prima di sapere e a sostituire la voglia di capire con quella di colpire. Si tratta di […] persone che, in nome del Bene, arrivano ad augurarti di morire. E hanno talmente fretta di fartelo sapere da non accorgersi nemmeno che su Silvia tu la pensi come loro”. Sono ovviamente da condannare senza appello insulti, minacce e contumelie varie: alle idee si risponde con le idee, ed è una regola aurea assai preziosa in questo periodo in cui i social network possono facilmente veicolare odio, frustrazioni ed eccessi dei quali sembra essersi persa la vergogna. Confesso, tuttavia, che, rileggendo i due scritti, un po’ di disagio lo si prova. Avrò un limitato spirito di indagine critica, sono pronto ad ammetterlo: ma riconoscere “la logica di alcune argomentazioni contro la cooperante per arrivare nelle righe successive a rovesciarle” non mi convince. Si potrebbe dire: si è spiegato male, capita. Forse. Credo, in realtà, che Gramellini si sia spiegato benissimo. Da un lato ha riconosciuto la fondatezza della logica di chi ritiene inutile e dannosa l’azione dei cooperanti. Dall’altro ha condannato – giustamente e condivisibilmente – gli attacchi e gli insulti rivolti a Silvia. Vasi non comunicanti, insomma. Ma c’è di più: parlare di ramanzina e avventatezza e confinando la scelta di Silvia Romano nell’entusiasmo della dimensione giovanile e sognatrice della sua età pare svilire non solo la pienezza del suo agire ma, a ruota, anche la concretezza delle azioni di tante donne e tanti uomini, giovani e meno giovani, che hanno deciso di impegnarsi per la giustizia nel mondo. Suona tronfio, lo so: ma non c’è altro modo di dirlo. E se ho piena stima del Gramellini uomo e professionista, quel fra le righe che traspare, magari involontariamente, dai suoi scritti credo abbia una valenza più ampia. E temo derivi da quanto siano penetrati, pure a forza e non voluti, nel nostro inconscio civile il sostanziale disprezzo per l’altro, il menefreghismo sfrontato per chi sta fuori dell’uscio di casa e l’odio malcelato per quelli che temiamo vogliano accaparrarsi chell che è nuost. E, di conseguenza, il fastidio per coloro che alzino gli occhi oltre gli angusti confini di casa nostra. Probabilmente mi sbaglio. O mi spiego male. In caso, la riscrivo.
24 Novembre 2018