il SocialistaNon sono i social che hanno cambiato il mondo. Il mondo lo hanno cambiato i videogame

In uno di quei bar di provincia rimasti immuni dalla moda dell’happy hour e dei dj set ho trovato, tutti e tre insieme, un calcio balilla, un flipper e un videogame cabinato. Uno di quelli dove q...

In uno di quei bar di provincia rimasti immuni dalla moda dell’happy hour e dei dj set ho trovato, tutti e tre insieme, un calcio balilla, un flipper e un videogame cabinato. Uno di quelli dove quando qualcuno raggiungeva un livello mai visto prima tutti gli altri si ammassavano intorno schiacciando – inevitabilmente – il giocatore contro lo schermo. Ecco in pochi metri quadrati, in sintesi, la rivoluzione digitale dal più analogico dei giochi all’antenato delle moderne console ma già capace di offrire quella sensazione ipnotica con gli occhi fissi sullo schermo, la mano sinistra sul joystick e la destra a gestire i canonici tre tasti. Dai rumori veri del biliardino, ai suoni elettronici del flipper fino alle sequenze di numeri che si trasformano in immagini, suoni e movimenti del videogioco.

Negli ultimi dieci anni il mondo nel quale viviamo è un posto completamente nuovo. Nel 2006 Facebook, l’intuizione di Mark Zuckerberg, apre a tutti e l’anno successivo, il 9 gennaio 2007 Apple presenta l’iPhone con un semplice slogan “abbiamo reinventato il telefono”, e avevano ragione loro.

I social network hanno cambiato il mondo e noi stessi è un’affermazione ricorrente, quasi abusata direi, ma all’interno della rivoluzione digitale che è bene considerare al pari di altri passaggi storici nella storia del progresso come l’invenzione della stampa a caratteri mobili o della macchina a vapore i social arrivano abbastanza tardi, abbiamo vissuto per molti anni in piena rivoluzione digitale senza nessun social. Sembra strano, soprattutto detto oggi, ma è cosi.

Non sono gli smartphone che ci hanno cambiato, siamo noi che siamo mutati. Ed a dare il via a questa mutazione non è stato internet o i social network ma i videogame.

Non sono gli smartphone che ci hanno cambiato, siamo noi che siamo mutati. Ed a dare il via a questa mutazione non è stato internet o i social network ma i videogame.

Ne i comunisti, ne i giovani della rivoluzione studentesca, il famoso sessantotto, sono riusciti a cambiare il mondo ma a farlo sono stati gli “smanettoni” che hanno inventato Space Invaders. È con i videogiochi, nelle nostre case arriva prima il Commodore64 che il pc o il telefonino (come si chiamava un tempo), che nasce la postura uomo-tastiera-schermo la stessa che ci porterà, anni dopo, al personal computer e all’iPhone, quella che oggi è per tutti la più comune, orami quasi naturale.

Negli anni 70 nella zona di San Francisco, in California, molti giovani aderivano al movimento degli hipster, diventati poi noti in tutto il mondo come hippie. Spesso avevano i capelli lunghi, ascoltavano rock psichedelico, si drogavano e odiavano il sistema. In quell’habitat su dieci che volevano cambiare il mondo 5 sfilavano contro la guerra in Vietnam, tre si ritiravano a vivere in comune nei kibbutz e 2 passavano le notti nei dipartimenti di informatica o nei garage a creare videogame. È quello il mondo da dove arriva Steve Jobs, è quello il mondo dove sono nati la Apple, Facebook, Google e tanti altri quel mondo che oggi conosciamo come “silicon valley”.

Proprio il fondatore della Apple, che iniziò la sua carriera alla Atari una società produttrice di videogiochi, nel 1990 quando internet era un sogno ancora lontano indicò i videogame come testimoni di una nuova rivoluzione.

Un ribaltamento di prospettiva notevole che riporta alla contrapposizione tra immobilità e movimento in una civiltà contemporanea progettata non più sulle ideologie ma sugli strumenti tipici del gioco: movimento, apertura, scambio.

Gesti semplici, interfaccia colorate, soddisfazioni immediate. È la logica dei videogame ad aver ispirato tutto quello che utilizziamo oggi. Anche la politica. La possibilità di veicolare un messaggio molto dinamico, molto leggero, molto veloce ha portato un afroamericano a diventare Presidente degli Stati Uniti d’America sconfiggendo, prima di tutto, un’inerzia culturale.

Anche il Movimento5Stelle è stato generato dalla logica del videogame. Partivano dall’idea di un’insurruzione digitale (che aveva anche delle buone idee) basata sull’apertura. Hanno proposto, dopo essersi alleati con il più novecentesco dei partiti presenti, la Lega, un programma che guarda più a ieri che a domani, perché è anti Europa, è per il lavoro fisso, i negozi chiusi la domenica. Rischiano di estinguersi come il Blackberry perché non era all’altezza della rivoluzione che lui stesso aveva messo in moto.

La rivoluzione digitale ha dato all’inizio possibilità che le persone non sapevano di avere, è un cammino che inizia virtuoso ma che poi non regge. Cambia la serie di possibilità, ma cambia anche la densità del mondo. Una sorta di “umanità aumentata” che porta all’individualismo di massa, ogni singolo si muove come un leader e nelle difficoltà quando ha paura inizia a cercare tutto quello che lo salva.

Ci siamo sempre più impersonificati nell’omino del videogioco, soli contro tutti, con l’altro che è semplicemente un nemico da abbattere con l’arma migliore per superare il livello, per avanzare nel gioco. Costi quel che costi.

Chi dovrebbe governare tutto questo, cioè la politica non ha la capacità di risposta, il tempo di reazione che il videogame richiede. Una cosa però sarebbe interessante farla. Nella società del videogioco bisognerebbe fare un’iniezione di un’altra intelligenza, non americana, femminile, europea, umanista. La bellezza salverà il mondo è la frase che ci ha lasciato Fiodor Dostoevskij forse a salvarlo invece sarà un nuovo umanesimo, quello che resisterà all’estinzione delle vecchie élite novecentesche ormai sotto scacco.

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