Criticano il dito, cioè le modalità della protesta, ma ignorano la luna: che cosa intendono fare contro il riscaldamento globale. Dobbiamo cambiare le priorità, a tutti i livelli. E anche cercare di rendere l’Italia un Paese più felice.
Chi, come noi dell’ASviS, ha manifestato a fianco degli studenti nel Global climate strike del 15 marzo, non può fare a meno di sentirsi offeso dal modo in cui alcuni giornali hanno trattato i ragazzi impegnati in questa protesta, considerandoli a seconda dei casi degli ignoranti che non sanno di che cosa parlano o degli utili idioti di movimenti politici che vogliono sovvertire l’ordine costituito. Anche Greta Thunberg, la ragazza svedese che ha messo in moto la valanga, sarebbe in realtà una “gretina” sfruttata a fini commerciali dai suoi genitori.
Alcune belle risposte a queste insinuazioni sono già state date. Massimo Gramellini sul Corriere della Sera, ha evocato
la nuova egemonia culturale dei cattivisti, che provano un fastidio quasi fisico per qualunque manifestazione del bene. La considerano ipocrita e moralista. Per loro gli esseri umani sono un impasto di pulsioni basiche e pensieri molesti. L’idealismo non è contemplato. Chiunque osi abbracciare un sogno o evocare un sentimento è ingenuo o in malafede. Da lui si pretendono una coerenza assoluta e una vita da anacoreta, altrimenti va subito affogato in un mare di cinismo. Non so perché lo facciano, ma preferirei essere Greta che uno di loro.
Bisogna anche difendere il movimento dei giovani dalle strumentalizzazioni, come ha sottolineato sul Foglio il leader della Fim Cisl Marco Bentivogli:
Ci sono ambientalisti seri e competenti e si battono gli ayatollah dell’ambientalismo nimby con un industrialismo moderno e sostenibile, che è anche più conveniente. Sono un sostenitore dell’auto elettrica ma ho spiegato che, senza infrastrutture e un nuovo ecosistema dedicato, faremo tardi e male. Mi hanno scritto che sono “pagato dalle lobby dei diesel”. Fate voi, ma io mia figlia in mano a questi fricchettoni non la lascio, e neanche il pianeta terra.
Una denuncia forte è arrivata anche, a nome degli studenti, da Giuditta Iantaffi e Ilaria Romano, coordinatrici nazionali della Rete Docenti Giornalisti Nell’Erba, criticando fortemente la presentazione della manifestazione fatta dal Messaggero e da altri giornali.
Sarebbe il caso però che invece di guardare il dito e cioè gli studenti, si guardasse alla luna, ponendosi la domanda di fondo: chi è disposto a impegnarsi contro il cambiamento climatico? Per fare che cosa? Internazionale riporta una inchiesta dello Europe’s far right research network, secondo la quale la nuova destra europea tende a frenare la lotta al riscaldamento globale; però le posizioni sono differenziate e in Italia questa discriminante non è poi così chiara. Del resto il Piano integrato energia e clima, recentemente presentato dal governo, non è adeguato agli obiettivi, come ci fa notare un gruppo di scienziati e ricercatori bolognesi, ma esprime comunque un impegno delle forze di governo sul problema.
Che fare dunque? Una valida ricetta dettagliata di quello che bisogna fare è stata offerta dal Wwf alla vigilia della manifestazione del 15. La sostanza è che bisogna davvero dare priorità a questo tema, nelle scelte politiche, nelle strategie aziendali, nei comportamenti individuali.
Il mondo si sta davvero muovendo in questo senso? Per rispondere, è interessante analizzare quello che è successo nei giorni scorsi a Nairobi. Ci sono state due riunioni separate:
– il 14 marzo si è tenuta la terza edizione dell’incontro “One planet summit”, l’iniziativa voluta dal presidente francese Emmanuel Macron nel tentativo di sbloccare le trattative sul clima (a cui Parigi tiene molto, visto che proprio in questa città furono sottoscritti gli accordi del 2015) e che si sostanzia in incontri ad altissimo livello, coordinati in questo caso dallo stesso Macron e dal presidente kenyano Uhuro Kenyatta.
– Dall’11 al 15 marzo si è tenuta la Quarta assemblea dell’Onu sull’ambiente (Unea-4), con la partecipazione di 5mila delegati di governi, imprese e società civile. Sono stati presentati diversi rapporti interessanti, (sul nostro sito abbiamo segnalato quello sul consumo dei materiali e il più generale Global environment outlook) e approvate una quantità di risoluzioni, che sono sostanzialmente raccomandazioni ai governi nazionali. La sintesi che se ne può leggere sull’Earth negotiations bulletin, fedele cronista delle riunioni internazionali, dà l’idea di una mole di lavoro gigantesca. Ma servirà a qualcosa? La stessa fonte segnala che la riunione ha messo in evidenza alcuni rischi dei lavori dell’Onu sullo sviluppo sostenibile.
Alcune delegazioni hanno sottolineato che i riferimenti all’Agenda 2030 e alla convenzione di Addis Abeba (che dovrebbe regolare il finanziamento per lo sviluppo sostenibile) sono diventati più controversi, segno di un indebolimento degli impegni o addirittura di un tirarsi indietro rispetto a quanto precedentemente sottoscritto sul piano multilaterale. È stato sottolineato a questo proposito che il One planet summit che si è svolto in parallelo con Unea-4 ha ricevuto più attenzione dai media. Alcuni delegati si sono chiesti se il futuro del multilateralismo non sarà piuttosto in una “coalizione dei volenterosi”o in ristretti club diplomatici come il G7 piuttosto che in forum universali come le Nazioni Unite.
Queste preoccupazioni sembrano realistiche e dovrebbero essere al centro dell’attenzione della politica estera italiana. È chiaro che bisogna percorrere un doppio binario: quello lento e tortuoso dell’Onu, indispensabile per coinvolgere tutti, ma faticoso per i troppi veti (non solo quelli sul carbone, ma anche per esempio quello dei Paesi tropicali sulla deforestazione, l’incapacità di arrivare a un accordo sulle plastiche e via dicendo) e quello più veloce degli Stati che vogliono comunque progredire e porsi come modello di sostenibilità. Sarebbe importante rimanere all’interno del gruppo di testa e fare in modo che questi obiettivi siano condivisi dal parlamento europeo che nascerà dopo le elezioni di maggio.
Possiamo essere più felici? Lo domando perché il 20 marzo si è celebrato l’International day of happiness. L’ASviS ne ha discusso nella sua rubrica “Alta sostenibilità” su Radio radicale. Personalmente ho ripreso il tema anche nel mio blog “Numerus” sul sito del Corriere della Sera, ricordando un interrogativo posto da Enrico Giovannini anni fa, dopo un viaggio in Bhutan, al congresso dell’Associazione italiana per gli studi sulla qualità della vita: va bene promuovere il benessere collettivo, che è l’obiettivo di tutte le azioni per andare “oltre il Pil”, ma ci si chiede se lo Stato deve spingersi più in là, insegnando a “estrarre felicità” dalla propria condizione. Certo, affidare ai pubblici poteri questa funzione può essere pericoloso, ma resta il fatto che l’Italia non è molto felice. Ieri abbiamo saputo che, con una media di 6,2 in una scala da zero a dieci, l’Italia è al 36mo posto nella classifica dei 156 Paesi indagati dalla Gallup, dietro a tutte le grandi nazioni europee. Siamo il Bel Paese, ma qualcosa non funziona e speriamo che i giovani ci aiutino a cambiarlo.
a cura di Donato Speroni, Responsabile della Redazione dell’ASviS