Troppi ragazzi non sono preparati adeguatamente dalla scuola, non ricevono valori dalla famiglia, spesso sono bloccati nella povertà. La provocazione di De Bortoli: per loro la classe dirigente non sta facendo abbastanza.
È bastato un po’ di freddo fuori stagione per indurre certi commentatori a ironizzare sul riscaldamento del Pianeta. Non lo hanno fatto discutendo la correttezza delle valutazioni ormai pressoché unanimi degli scienziati sull’aumento della temperatura, ma se la sono presa con Greta Thunberg, l’adolescente svedese che ha messo in moto la protesta mondiale dei ragazzi impegnati a rivendicare un futuro migliore. Non hanno osato affrontare il tema delle cause antropiche dei mutamenti meteorologici, ma hanno solo mostrato insofferenza verso la protesta, esibendo nuovamente l’orrendo neologismo “gretini”. Sanno bene che il riscaldamento è una media globale innegabile, anche se ci possono essere stagioni più o meno fredde, più o meno piovose, ma ogni scusa è buona per fermare il cambiamento.
Queste reazioni di insofferenza dimostrano che in certi ambienti, a parte le dichiarazioni di convenienza sulla “sostenibilità”, non c’è nessuna voglia di modificare le priorità politiche. Far accettare un modello di sviluppo sostenibile sarà una battaglia che durerà a lungo, anche oltre i tempi dell’Agenda 2030. Una battaglia nella quale i giovani avranno un ruolo determinante. Abbiamo visto dalla mobilitazione di queste settimane che i ragazzi sono pronti a impegnarsi per difendere il loro futuro, ma sappiamo anche che la piazza non basta, che è necessario essere culturalmente attrezzati e nelle migliori condizioni per affrontare le difficili scelte dei prossimi anni. Facciamo abbastanza per prepararli?
Una serie di notizie e di prese di posizione di questi giorni mi stimola a questa riflessione. A cominciare dagli indicatori elaborati dall’Istat in relazione all’Obiettivo 4 degli Sdgs, quello sull’educazione, ripresi dalla stampa. Riportiamo alcuni brani dell’ultimo rapporto.
In Italia, la quota di ragazzi iscritti al terzo anno delle scuole secondarie di primo grado che non raggiungono la sufficienza (low performer) nelle competenze alfabetiche è il 34,4%, in matematica del 40,1%
La Campania, con il 50,2% di low performer in lettura, seguita dalla Calabria (50%) e dalla Sicilia (47,5%) sono le regioni dove i livelli di studenti con scarse competenze alfabetiche sono più alti; anche per le competenze numeriche degli studenti di III classe delle scuole secondarie di primo grado, queste regioni mantengono i livelli più alti di insufficienza, Campania e Calabria con il 60,3% dei ragazzi e Sicilia con il 56,6%.
Tra gli studenti delle seconde classi delle scuole superiori di secondo grado, il 33,5% non raggiunge un livello sufficiente nelle competenze alfabetiche e il 41,6% in quelle numeriche. Le differenze regionali sono ampie.
Sapevamo dall’indagine dell’Ocse del 2013 sulle competenze degli adulti che l’Italia era agli ultimi posti tra i Paesi più sviluppati: solo il 30% circa degli italiani tra i 16 e i 65 anni raggiunge un livello accettabile nella capacità di comprendere un testo, mentre un altro 30% non è in grado di sintetizzare un’informazione scritta, può solo svolgere compiti semplici e ripetitivi. Speravamo che la situazione cambiasse, con l’aumento della scolarizzazione, ma l’Istat ci dice che non è così, nonostante l’impegno di tanti docenti anche di fronte alle difficoltà dell’integrazione: un terzo dei giovani tra i 13 e i 15 anni (la metà in alcune regioni del Sud) non capisce quello che legge e meno ancora sono quelli in grado di risolvere semplici problemi.
Da questo analfabetismo non dichiarato ai comportamenti antisociali il passo è breve. Lo psicanalista Massimo Ammanniti ha così commentato sul Corriere della Sera la vicenda del branco di ragazzi che ha torturato un disabile a Manduria:
Una madre dei ragazzi ha cercato di giustificare il proprio figlio e gli altri ragazzi coinvolti dicendo che non c’è nulla a Manduria per i ragazzi se non i bar. Ma il deserto di Manduria non è legato alla mancanza dei luoghi di ritrovo, dipende piuttosto dall’abbandono educativo da parte degli adulti, in primo luogo la famiglia e anche la stessa scuola che non hanno saputo trasmettere ai ragazzi il rispetto e la comprensione per gli altri oltre che per se stessi.
Le scuole che non insegnano, le famiglie che non trasmettono valori si intrecciano con il problema della povertà minorile. Viviana Daloisio ha scritto su Avvenire:
Basta guardare all’ultimo decennio per capire di cosa stiamo parlando: i dati sulla povertà elaborati dall’Istat nel 2007 (l’ultimo anno precedente alla crisi finanziaria ed economica esplosa nel 2008) mostravano un’incidenza di povertà assoluta tra bambini e giovani in minore età del 3,1%, quelli del 2017 del 12,1%. Un balzo sconcertante «per cui si è fatto meno di quello che sarebbe necessario» sottolinea Giancarlo Rovati, ordinario di Sociologia all’Università Cattolica di Milano. «Basti guardare alla corrispondente povertà assoluta tra gli anziani, passata dal 3,1% al 4,6% negli stessi dieci anni, per effetto dei trattamenti pensionistici e degli assegni sociali destinati a questa parte della popolazione». E anche in queste ore, in cui da Eurostat arrivano segnali di ottimismo su un rallentamento della morsa dell’indigenza, «la buona notizia continua a non valere per i bambini – aggiunge Rovati –, visto che la situazione è migliorata per tutte le fasce di età ad esclusione proprio di quella dei più piccoli». Con la percentuale dei minori di 6 anni in condizione di disagio che sale nel 2018 dall’8,5% all’8,8%, contro una contrazione di quasi due punti percentuali nella fascia di chi invece è in età da lavoro (25-54 anni). «Un allarme che non può essere ignorato oltre».
La classe dirigente sta facendo abbastanza per rispondere a questa sfida? Una risposta netta è venuta da Ferruccio De Bortoli, presentando il suo nuovo libro “Ci salveremo” a Che tempo che fa.
Una classe dirigente nella quale la maggior parte dei grandi imprenditori porta la sede legale e fiscale all’estero, una classe dirigente che non condivide gli oneri della cittadinanza, non deve meravigliarsi se una parte della popolazione si sente estranea. Se ci fosse una classe dirigente all’altezza dei compiti, si porrebbe il problema di come aiutare i due milioni e forse più di giovani tra i 15 e i 29 anni anni che non studiano e non lavorano e si tasserebbe. Direbbe: prendiamo atto di questa enorme presenza di ragazzi che non hanno un futuro e ci impegniamo a dare loro una istruzione, una formazione, ad aiutare il servizio civile. Per fortuna c’è un grande volontariato, che è un capitale sociale prezioso.
Il titolo positivo del libro dell’ex direttore del Corriere nasce proprio dalla presa d’atto dell’importanza del volontariato e del terzo settore, una realtà di cui ASviS, con le oltre 200 associazioni che fanno parte dell’Alleanza, è certamente una componente importante, inpegnata a mobilitare tutta l’opinione pubblica in occasione del prossimo Festival dello sviluppo sostenibile.
Ma la provocazione di De Bortoli non va lasciata cadere. Ricordiamo che il target 8.6 dell’Agenda 2030 impegna a “Entro il 2020, ridurre sostanzialmente la percentuale di giovani disoccupati che non seguono un corso di studi o che non seguono corsi di formazione”. Sono i cosiddetti Neet, not in employment, education or training. Uno studio del luglio 2018 della Agenzia nazionale politiche attive del lavoro ne aveva censito 2,19 milioni, pari al 24,1% dei giovani tra i 15 e i 29 ani, la percentuale più alta in Europa. C’è stato un miglioramento negli ultimi anni, rispetto ai 2,4 milioni del 2013, ma ci sono anche gravi squilibri territoriali: i Neet sono quasi il 38% della popolazione giovanile a Napoli, oltre il 40% a Palermo. Lo stesso studio avverte che i Neet non sono affatto i bamboccioni che qualcuno crede, perché il 41% di essi è attivamente in cerca di lavoro e un altro 25% vorrebbe avere nuove opportunità formative. Nel complesso però i dati sono allarmanti e il calo nel loro numero è ben lontano dall’Obiettivo che abbiamo ricordato. La realtà è che una vasta parte delle nuove generazioni per carenze scolastiche, povertà, mancanza di opportunità, è condannata a rimanere ai margini e non è attrezzata per affrontare le sfide del domani. Da questa allarmata constatazione bisogna partire per trasformare i giovani in costruttori di futuro e magari anche per riuscire a richiamare i tanti che hanno cercato migliori prospettive all’estero.
a cura di Donato Speroni, Responsabile della Redazione dell’ASviS