Il “conto salatissimo della sostenibilità mancata”ci sta piombando addosso. Servono scelte lucide e coraggiose, senza “greenwashing”. Il ruolo del Festival dello sviluppo sostenibile, momento importante di mobilitazione e di riflessione.
Dobbiamo diventare radicali. Non mi riferisco all’impegno per salvare Radio radicale, impegno che pure condividiamo perché l’emittente rappresenta una parte importante della storia e della cultura politica di questo Paese, e neppure alle battaglie degli eredi di Marco Pannella e del compianto Massimo Bordin, ma a un atteggiamento generale che non si accontenta più delle mezze misure. Lo ha spiegato bene su “Buone notizie”, l’inserto del Corriere della Sera, Mario Calderini, che insegna Social Innovation al Politecnico di Milano:
Ricorderemo questi mesi come quelli nei quali è diventato evidente, su scala globale, quale sia il prezzo vero e ultimo della non sostenibilità: lo sgretolamento delle istituzioni, lo svuotamento culturale e valoriale delle stesse e le conseguenti imprevedibili trasformazioni sociali e del nostro vivere civile. Indugio su questa riflessione dopo aver ascoltato Enrico Giovannini, in un recente dibattito presso la Fondazione Feltrinelli, e penso che benché avessimo previsto un conto salatissimo per la sostenibilità mancata, lo avevamo immaginato differito nel tempo e non certo in questa forma così improvvisa e violenta. E invece il frutto avvelenato di un modello di crescita non più sostenibile si presenta oggi ed improvvisamente in forma di disuguaglianza, esclusione e rabbia sociale. Da questo nasce l’urgenza e l’imperativo di ridefinire i termini dell’agenda di sostenibilità, passando dalla fase dell’advocacy e della narrativa alla fase della radicalità. Radicalità significa non accondiscendere, in campo finanziario o imprenditoriale, ad interpretazioni di maniera del concetto di sostenibilità, relegandolo ad una dimensione di marginalità e lateralità.
La radicalità, a nostro avviso, dovrebbe riguardare anche le scelte politiche e quelle di consumo individuale, proprio per evitare il degrado del vivere civile di cui parla Calderini. SPEZZARE QUI I segnali che dovrebbero far riflettere sono molteplici. Per esempio, nei giorni scorsi è stata pubblicata un’indagine Gallup, ripresa anche dalla Cnn, basata su 151mila interviste in più di 140 Paesi, nella quale si segnala che “in tutto il mondo la gente è triste, arrabbiata e spaventata come non mai”. Ci sono ovviamente differenze tra i diversi Paesi. I dieci Paesi più infelici sono tutti in Africa e Medio oriente, mentre il continente più felice è l’America latina, nonostante i ben noti problemi, per la tendenza della popolazione a guardare gli aspetti positivi, spiegano i ricercatori della Gallup. Nel complesso però, la soddisfazione scende e la paura sale, smentendo anche la diffusa convinzione che il miglioramento del benessere per un’ampia parte delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo porti a una maggiore felicità.
Che cosa manca? Molta gente si sente minacciata dal futuro e questo senso di apprensione non sarà superato senza un profondo ripensamento del sistema in cui viviamo. Lo sostengono due scrittori, entrambi citati dall’ottima rassegna stampa del Corriere della Sera, sempre più attenta ai temi della sostenibilità. Il primo è Dani Rodrik, economista e docente alla Kennedy School of government di Harvard, tra i più lucidi analisti della globalizzazione, in una intervista a Foreign policy. Per Rodrik il sistema capitalistico va riformato per salvarlo dalla rabbia dei suoi critici. La forza del capitalismo, del resto, sta nella capacità di reinventarsi. Altrimenti:
penso che la prossima reazione sarà contro la tecnologia. Abbiamo visto quella contro la globalizzazione. E, non fosse che per la dislocazione e le implicazioni avverse, sul mondo del lavoro, dell’automazione e delle nuove tecnologie digitali, gli impatti saranno ancora maggiori. Se proseguiremo sul cammino che sta creando società profondamente divise, in termini di reddito, status sociale e accesso al sistema politico, penso che potremmo ritrovarci i forconi contro la tecnologia e ciò sarebbe ovviamente molto pericoloso dal punto di vista sia economico che politico.
Numerosi studi usciti in occasione del primo maggio e di cui diamo conto sul sito, confermano che l’evoluzione tecnologica aumenta il senso di precarietà.
Il secondo scritto, ancora più drastico, è dello scrittore ambientalista George Monbiot sul Guardian, che in polemica con il premio Nobel Joseph Stiglitz afferma:
Il capitalismo ha fatto il suo tempo e oggi produce più mali che beni, esattamente come il carbone, che pure in passato ha avuto tanti meriti. Per questo va rifondato con un nuovo concetto di giustizia basato su questo semplice principio: che ogni generazione, dovunque, dovrebbe avere lo stesso diritto a godere della ricchezza naturale.
Monbiot mette in discussione l’idea stessa di una crescita sostenibile, “perché ogni crescita economica presuppone il saccheggio di risorse naturali”; ammette però di non essere in grado di proporre un’alternativa compiuta, ma solo spunti di proposte su cui lavorare, come quelle offerte da Jeremy Lent, Kate Raworth, Naomi Klein e altri.
Riformare il capitalismo, indirizzare la tecnologia verso una società più sostenibile in senso ambientale ma anche sociale: tutto questo richiede ancora un grande sforzo di elaborazione, di discussione comune, oltre a un notevole coraggio nel fare scelte innovative. L’Agenda 2030 è il quadro di riferimento, ma è necessario mettere a punto soluzioni che tengano conto delle complesse interazioni tra i diversi obiettivi. Insomma, c’è molto da lavorare.
Innanzitutto, dobbiamo essere consapevoli della dimensione della sfida ed evitare il greenwashing, i generici riferimenti alla sostenibilità che non servono a risolvere i problemi. Il discorso sulla finanza è fondamentale perché la partita degli SDGs si gioca in buona parte nei Paesi nuovi che richiedono nuovi capitali. Il segretario generale dell’Onu António Guterres spinge per moltiplicare l’impegno finanziario sulla sostenibilità, come raccontiamo sul nostro sito, ma gli ostacoli sono molti e lo stesso Calderini denuncia il rischio di “impact washing, una vuota ri-etichettatura di strumenti finanziari del tutto sconnessi da bisogni e problemi reali e dalle relative soluzioni”.
Bisogna insomma affrontare i temi dello sviluppo sostenibile avendo ben presente che siamo in una fase nuova, come segnalava anche lo stesso editoriale di Enrico Giovannini due settimane fa. Oggi di sostenibilità si parla sempre più, l’urgenza di attuare soluzioni “radicali” di cambiamento è sempre più avvertita, ma non è detto che tutto quello che si fa e si proclama in nome della sostenibilità sia effettivamente quello che serve; talvolta può essere addirittura un alibi per non affrontare i veri problemi.
Di fronte a questo rischio la soluzione individuata dall’ASviS è quella di discutere, coinvolgere, impegnare. Ieri l’Alleanza, con un ricco parterre di partner, ha presentato la terza edizione del Festival dello sviluppo sostenibile, che si terrà in tutta Italia dal 21 maggio al 6 giugno. Il messaggio di quest’anno è “mettiamo mano al nostro futuro” e l’immagine richiama espressamente la necessità di “sporcarsi le mani” perché non si può costruire un avvenire sostenibile rimanendo a guardare. Il Festival, con le sue centinaia di eventi, costituisce una grande occasione di sensibilizzazione. Ha una dimensione politica, perché si apre con un dibattito sull’Europa, a cinque giorni dalle elezioni per il Parlamento europeo, e si chiude con un confronto con le forze politiche italiane. È occasione di approfondimento su tutti i 17 SDGs, ma affronta anche temi trasversali, come per esempio il ruolo delle religioni in rapporto allo sviluppo sostenibile. Il Festival sarà anche il momento per avviare una fase nuova nella battaglia per lo sviluppo sostenibile, quella delle scelte chiare e precise, anche a livello europeo.
a cura di Donato Speroni, Responsabile della Redazione dell’ASviS