Anche i ricchi migrano, se sperano che cambiar Paese (o Pianeta?) serva a salvarli. Abbiamo pochi anni per evitare la catastrofe; in Italia aumenta la sensibilità, ma i grandi divari territoriali ostacolano lo sviluppo sostenibile.
Jeff Bezos, il fondatore di Amazon considerato l’uomo più ricco del mondo, ha avuto un’idea: per far fronte alle condizioni sempre meno abitabili della Terra, creare nuovi insediamenti nello spazio; città orbitanti, riservate ovviamente a chi se le potrà permettere. Il sito Futurism ha scritto che per questa sua proposta Bezos è stato messo sulla graticola con commenti su Twitter di questo tipo: “Solo i super ricchi possono immaginare di costruirsi un pianeta di riserva dopo aver incasinato (“fucked up”) quello attuale”.
Sogno o incubo? È certo che molti si interrogano su come mettersi al riparo dai cambiamenti climatici e non sono solo i poveri “migranti economici”. Ha detto il portavoce dell’ASviS Enrico Giovannini in un’intervista al Fatto quotidiano a cura di Antonello Caporale, lunedì 13:
Di certo anche i ricchi migreranno. Sa che già sono in atto disinvestimenti immobiliari nell’area meridionale dell’Europa? Si compra in Norvegia perché il clima sarà più favorevole. L’Indonesia progetta di spostare la sua capitale Giacarta, destinata per una metà a rimanere sott’acqua entro questo secolo. I grandi viticoltori australiani stanno investendo nel loro sud, dove il clima sarà più favorevole. Alcuni ricconi d’America si stanno facendo costruire bunker in Nuova Zelanda.
Il titolo dell’intervista mette paura: “Cibo, clima e migrazioni: 11 anni all’Armageddon”. In essa Giovannini ribadisce che
l’Agenda 2030 predisposta dall’Onu, alla cui preparazione ho avuto modo di contribuire, elenca 17 Obiettivi da raggiungere nei diversi campi dell’attività umana e pone 169 target da centrare se non vogliamo conoscere un arretramento degli stili di vita, milioni di morti per fame, grandi territori desertificati, guerre locali.
I rischi sono grandi e l’indifferenza che molti politici dimostrano di fronte a queste sfide (magari riconoscendole a parole ma poi ignorandole nei fatti) ha indotto qualcuno a paragonare il mondo di oggi alla serie televisiva del Trono di spade dove si combatte e ci si ammazza tra i diversi regni e al loro interno, ignorando il Grande Freddo che avanza, anche se tutti sanno che dovrà arrivare.
Gli elementi di insostenibilità sono molti e gli italiani fanno bene a preoccuparsi non solo per il 2030 ma anche per il 2020, se è vero quanto scritto da Greenreport.it, riportato dall’Osservatorio Ecomedia: entro due anni tutte le discariche che raccolgono i rifiuti in Italia saranno esaurite e servirebbero dieci miliardi di investimenti per crearne di nuove, ammesso, aggiungiamo noi, che per realizzarle si riesca a superare l’effetto Nimby, Not in my backyard. Manderemo più robaccia all’estero? È sempre più difficile perché la Cina ha praticamente chiuso le importazioni di scarti di plastica e sui rifiuti sorgono contese internazionali. Il Guardian ci racconta che il sanguigno presidente delle Filippine Rodrigo Duterte ha minacciato di “dichiarare guerra” (sic) al Canada se Ottawa non si riprenderà un centinaio di container che erano stati inviati cinque anni fa con l’intesa che contenessero rifiuti riciclabili, mentre si trattava solo di volgare spazzatura.
I container torneranno indietro e la guerra non scoppierà, ma anche questo è un segno dei tempi e della complessità dei problemi. Come la grande inchiesta dell’Economist sul consumo di prodotti animali, che sta andando fuori controllo: in 50 anni, il consumo medio pro capite di carne dei cinesi è passato da 4 a 62 chili all’anno, quasi due etti al giorno. Anche la crescente popolazione africana consuma più carne, con grandi vantaggi per la salute rispetto alla precedente situazione di denutrizione, dice il settimanale, ma con prospettive preoccupanti per il Pianeta, considerando l’apporto degli allevamenti alla produzione di anidride carbonica e ai consumi di acqua.
In Italia, per fortuna, la consapevolezza dei numerosi elementi che potrebbero condurre al disastro comincia a radicarsi nell’opinione pubblica. La rassegna stampa del Corriere della Sera in questa bella sintesi di Gianluca Mercuri ci segnala che
Non si può dire che, in tema di ambiente, agli italiani difettino sensibilità e autocritica: «L’80% teme di essere alle soglie di un disastro ambientale» e il 74% «pensa di aver contribuito personalmente alle isole dei rifiuti negli oceani». L’Ipsos ha messo insieme una serie di studi e indagini di mercato che ha realizzato su Csr (corporate social responsibility, responsabilità sociale d’impresa) e sostenibilità ambientale, e ne ha ricavato il primo grande report italiano sulla plastica, che dimostra che ci stiamo preparando con buona consapevolezza all’era plastic free imposta dalle direttive della (benedetta sempre sia) Unione europea. Vediamo: l’allarme plastica è «un problema molto serio» per il 50% degli italiani; oltre un italiano su tre è convinto che le aziende debbano darsi una mossa sul packaging e trovare modi alternativi per confezionare i prodotti.
E qui l’Ipsos fa una notazione importante, inserendo con molto acume la tematica ambientale nel contesto culturale e politico: «L’emergenza ecologica non è più percepita come priorità solo per una élite, ma è un problema vissuto dalla gran parte delle persone che se ne fanno carico attraverso, prima di tutto, un’acquisizione di conoscenza qualificata». Tant’è che «negli ultimi quattro anni l’attenzione e la volontà di apprendere nozioni specifiche in materia ambientale è cresciuta del 65%». Sono parole fondamentali, perché il rischio che l’ambiente diventi una nuova linea di frattura tra fighetti e poveracci, ricchi e poveri, progressisti e populisti, sinistra e destra, chi si può permettere l’energia pulita e chi no, è davvero forte e in Europa si sta già traducendo in contrapposizioni nette, dai gilet gialli francesi contro Macron alle estreme destre del Nord Europa che scelgono posizioni anti-ambientaliste.
Per evitare che l’ambiente diventi “una nuova linea di frattura” è necessario affrontare congiuntamente tutti i temi della complessità di una politica di sviluppo sostenibile, come l’ASviS non si stanca di ripetere dalla sua fondazione e come viene ribadito nell’ambito del Festival dello sviluppo sostenibile che si aprirà martedì prossimo, ma che ha già registrato alcuni importanti incontri “nei dintorni del Festival” tra i quali gli eventi nazionali “Finanziare lo sviluppo sostenibile: il partenariato globale, dalla teoria alla pratica” ad ExCo 2019, e “Promuovere l’innovazione sostenibile, orientare il mercato: un nuovo ruolo del government” al ForumPa.
Nell’ambito del ForumPa sono stati anche proclamati i nove vincitori del “Premio P.a. sostenibile, 100 progetti per raggiungere gli Obiettivi dell’Agenda 2030“, un’iniziativa promossa da Fpa in collaborazione con ASviS per individuare, far emergere e valorizzare i migliori progetti e prodotti che aiutano la pubblica amministrazione nel percorso di trasformazione verso il 2030.
L’ASviS nell’imminenza del Festival ha anche diffuso i nuovi dati che consentono di misurare il progresso delle regioni verso gli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Un aggiornamento importante perché, come ha detto Giovannini,
l’Italia è indietro nel percorso di transizione verso lo sviluppo sostenibile e poiché molte politiche sono di competenza delle Regioni e delle Province autonome spetta anche a loro adottare i provvedimenti necessari per accelerare questo processo.
Il messaggio che proviene da questi dati è che ancora una volta in Italia si riscontrano forti differenze territoriali. Si torna così a parlare delle diseguaglianze che, quando sono eccessive, impediscono qualsiasi efficace politica di sviluppo sostenibile.
a cura di Donato Speroni, Responsabile della Redazione dell’ASviS