Da molti anni la parola “patria” subisce una doppia offesa. La sinistra l’ha perduta, con prevalente sprezzo e taglio della memoria, nell’uso comune; la destra ne ha fatto uso casuale, opportunistico e soprattutto stravolto rispetto ai valori storici costituivi passati attraverso l’età risorgimentale, la costruzione dell’unità nazionale, la resistenza e la vocazione europeistica.
Il risultato è che nella fase dello smarrimento valoriale prodotto dalle crisi geopolitiche globali (dentro cui si collocano anche le crisi economiche) si assiste a un trasferimento del lessico civile diventato sconcertante.
I leader del PD vanno sulla tomba di don Milani o di Calamandrei nel loro “primo giorno di scuola” e poi sorvolano spesso ogni avvenimento con le parole del galleggiamento. I sovranisti invocano la patria come soggetto di una cultura “contro”, pensando di poter sfruttare antiche occasioni militari per caratterizzare un concetto di rigenerazione identitaria ( patria come “terra dei padri”) come fosse una clava contro i nemici e soprattutto come i nemici prodotti dal loro propagandismo (quasi sempre gli “altri” e comunque i “diversi”).
Suona così straordinario ammonimento la semplice, austera, commovente annotazione della senatrice Liliana Segre, nel giorno in cui tutte le destre, anche quella che pretenderebbe ancora di dirsi “liberale”, non le concedono neppure il rispetto di alzarsi simbolicamente in piedi a fronte delle vicende e dei significati che lei incarna. In quel giorno Liliana Segre fa emergere dalla memoria di un campo di concentramento e di sterminio un magnifico brandello di sentimento nazionale. “ Patria mea pulchra est” ricorda di aver detto nel campo di Birkenau a una ragazza sua coetanea, come lei denudata dai nazisti e con i capelli rasati, che disperata incrocia il suo sguardo, trovando le due ragazze la sola possibilità di comunicare qualcosa con la lingua latina. La mia patria e’ bella. E anche “La mia famiglia è dolce”, Familia mea dulcis est, senza dimenticare di compiangere insieme alla sventurata compagna lo stato delle cose: “Cor meum et anima mea tristes sunt”.
Ogni giorno nel nostro sistema culturale, scientifico, di ricerca accadono cose di cui la politica non si occupa quasi più. Studi, convegni, dibattiti attorno alla vicenda storica nazionale e internazionale in cui gli studiosi – di ogni età e con un plurale posizionamento politico-culturale – hanno un doppio ostacolo da affrontare: rimettere luce sul passato, contro la perdita di senso della storia che ci circonda; mantenere viva l’interpretazione del pensiero di una società aperta laddove la manipolazione rancorosa ha fatto prevalere tesi autarchiche.
Due spunti mi lambiscono in questi giorni.
A Milano il 30 e 31 ottobre la Fondazione Ernesto Rossi-Gaetano Salvemini ha promosso il convegno per il 150 della morte di Carlo Cattaneo (avvenuta a Lugano nel 1869). Lo storico napoletano Luigi Mascilli Migliorini mi segnala l’importanza – per tutte le dimensioni culturali e tutte le latitudini delle culture europee – di tenere dalla parte giusta dell’interpretazione storica figure manipolate da tentativi di chiuderle in separatismi territoriali.
A Roma l’8 novembre in Senato la Fondazione Francesco Saverio Nitti promuove, alla presenza del Capo dello Stato e con prolusione di Giuliano Amato, il ripensamento sul pensiero e l’opera di uno dei maggiori esponenti della nostra cultura liberal-democratica progressista, del cui governo (1919-1920) ricorre il centenario, che è anche quello di un biennio in cui una evoluzione finalmente pacifica verso una idea europea di patria e verso una società più giusta, soccombe per le insorgenze del nazionalismo del tempo finendo per imporre una lunga pagina nera, quella che porterà una innocente ragazza milanese a dire nel campo di sterminio di Birkenau “Patria mea pulchra est” e “Cor meum et anima mea tristes sunt”.
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