Sono parte di una rivista storica della cultura politica socialista italiana, Mondoperaio, fondata da Pietro Nenni e diretta con sapienza da dieci anni da Luigi Covatta, che nel mezzo di una valanga (rete, giornali, librerie e forse anche un po’ tra la gente) mi ha chiesto di pesare qualitativamente il “dibattitone” degli ultimi dieci giorni. Quello che, dal 9 gennaio (uscita del film “Hammamet” di Gianni Amelio) al 19 gennaio (evento ad Hammamet in ricordo dei venti anni dalla scomparsa di Bettino Craxi), ha impegnato antichi compagni d’armi e antichi oppositori, militanti e diffamatori, ragionanti e rivalutanti, frequenti nostalgici e soprattutto inevitabili misuratori di due epoche distinte della storia politica italiana: quella e questa.
Non faccio qui sintesi della sintesi. Essa dovrebbe uscire – con i nomi – nel fascicolo n. 2 di febbraio e vedremo se sarà considerata abbastanza imparziale (come vorrebbe essere) e abbastanza utile (come teme di non essere). Rifletto ora, a inventario finito, proprio su questa fragile utilità, per avere concluso quel testo dicendo che, senza una forza politica radicata responsabilmente nella vicenda evolutiva del negoziato tra sogni e rabbie degli italiani, quel dibattito può non atterrare da nessuna parte. Cioè può significare chiudere alcuni conti sul profilo della memoria (non inutilmente) più che ripristinare la centralità di una cultura riformista (necessaria) che ogni volta che ha alzato la testa è stata umiliata per poi finire in soffitta.
Ne ho parlato con l’amico editore Walter Marossi (il cui Ornitorinco sta consegnando alle librerie e alle presentazioni in Liguria, a Roma e a Milano la magnifica ricostruzione del “Sandro Pertini. Gli anni giovanili” di Giuseppe Milazzo) e abbiamo convenuto rapidamente sul senso del fossato che la seconda Repubblica ha creato per danneggiare irreparabilmente il ponte tra le due rive del fiume: quella e questa.
Dove è gravemente visibile il danno forse irreparabile?
Nel fatto che il denominatore comune della politica oggi è il segno “contro”, non il segno “pro”. La canea contro Craxi fu – come ha scritto su questo giornale il direttore Christian Rocca ieri – la palestra che innescò quel costume, generando neo-qualunquismo, neo-populismo, neo-distruttivismo.
Chi – anche reattivamente – cominciò a scrivere il nuovo copione fu Berlusconi, che mentre il comunismo evaporava lo tenne in vita criminalizzandolo, anzi comunistizzando ogni oppositore. Fino a che ogni opposizione si convinse che non ci fosse ormai altro modo di acchiappare voti che criminalizzare Berlusconi. E tra due fronti con la scimitarra, non bastarono i cori “per fortuna che Silvio c’è”, piuttosto che le feste dell’Unità e poi le Leopolde a mantenere priorità per l’analisi, il progetto, la proposta. Troppa fatica, troppo lavoro, troppa lentezza.
Uccidere l’avversario con un aggettivo a poco a poco ha corrisposto alle guerre stellari virtuali: cancellare gli ostacoli con un click. La destra senza storia, senza maggioranza, senza baricentro (un pezzo per gli affari, un pezzo per la nostalgia, un pezzo per la secessione) poteva solo ritrovarsi – come il mondo arabo rispetto ad Israele – non solo ingigantendo il nemico ma anche costruendo la propria retorica su questo prevalente obiettivo. La sinistra, che nascondeva invece le storie, si è fatta trascinare nella stessa retorica, cambiando l’oggetto del ludibrio.
Due trovate e l’affondo
Le due grandi trovate che hanno archiviato questa impoverita e improduttiva seconda Repubblica sono state il “vaffa” di Grillo maldestramente prodottosi in prevalenza a sinistra. E l’astuta parafascistizzazione – generata sul razzismo persistente di una parte larga del popolo italiano – che si è prodotta nel leghismo.
Lo spazio per nuove analisi, nuovi nessi tra tradizione e innovazione, nuova ricerca di essere parte di processi europei, si è così paurosamente ridotto. E alla fine la demagogia trumpista e l’autoritarismo putiniano hanno offerto i modelli internazionali di queste due sostanziali tumoralità della vita politica facendoci assistere a due spettacoli pirotecnici: il loro governo assieme (sic) e poi la celebrazione della loro guerra civile, che è in corso con l’assistenza, dichiarata per necessità ma sviluppata nella confusione, del Partito Democratico (che nemmeno sa scegliere di mettere un cartellino di partito su suoi sindaci e parlamentari che vanno ad Hammamet per non regalare Craxi alla sola memoria della destra).
In quel dibattito si sentono ancora adesso esuli politici (cioè esempi di classe dirigente messa in panchina per una proprietà transitiva inverosimile quella del “tutto per una parte”) che, se si scaldano su una storia come quella di Craxi venti anni dopo, lo fanno per ricordare la “politica per” non la “politica contro”.
Claudio Signorile dice: “via Craxi è finito il ruolo euro-mediterraneo dell’Italia”. Claudio Martelli dice: “via Craxi è finita la cultura del socialismo liberale”. Rino Formica dice: “via Craxi è finita l’ipotesi del sovranismo europeo”. E lo dicono a un coro di politici di oggi – per lo più assenti all’ascolto – di destra o di sinistra che alla fine ritrovano un’idea solo su un dato di fatto che non fa più notizia: “allora siamo d’accordo, via Craxi”.
Si capisce che le braci non sono spente all’interno del Pd (e la sponda delle Sardine magari aiuta). Si deve cogliere lo sforzo di Più Europa di restituire ruolo insieme ad elettorati liberali, socialisti, radicali e repubblicani. Si può immaginare che Azione e Italia viva convergano su un modello politico che uscendo dal personalismo costruiscano la “squadra per” e non la “squadra contro”. Si può persino immaginare che la costola liberale di una destra che ha abbandonato definitivamente questa connotazione si renda utile al Paese. Ma i tempi sono corti e le volontà ricostruttive sono impigliate nel politichese povero di studio e di progetto.