Passione e Competenza per un\'Italia miglioreNon si vince senza fiducia tra governanti ed elettori

Da quando ho cominciato a scrivere questi editoriali, ricevo spesso annotazioni interessanti dai lettori. Tra queste, quelle sempre puntuali di Gio Ferrara (che non conosco) il quale di recente mi ...

Da quando ho cominciato a scrivere questi editoriali, ricevo spesso annotazioni interessanti dai lettori. Tra queste, quelle sempre puntuali di Gio Ferrara (che non conosco) il quale di recente mi ha segnalato il testo di Peter Wadhams, notissimo studioso dell’Artico, “A Farewell to Ice” (“Addio ai ghiacci”; Bollati Boringhieri, 2019). Ecco quanto scrive Wadhams nella introduzione:

Sono un ricercatore polare, dal 1970. Nell’87 notai una riduzione del 15% dello spessore medio del ghiaccio artico, rispetto al ’76. Nel ’99 lo spessore medio del ghiaccio artico era diminuito del 43%, rispetto al ’76. Stava accadendo qualcosa di veramente drammatico.

Nel settembre 2012 il ghiaccio ricopriva meno della metà del territorio artico ghiacciato negli anni ’70. Oggi – 2019 – una nave che entra nella regione artica, dallo stretto di Bering, in estate, si trova davanti a un’ampia distesa di mare aperto.

Quest’area di acqua azzurra si estende molto, verso Nord, fino a poca distanza dal Polo. È possibile e probabile che lo stesso Polo Nord sia prossimo a essere libero dai ghiacci, in estate, per la prima volta, da decine di migliaia di anni.

Siamo entrati in quella che il climatologo statunitense Mark Serreze definisce ‘la spirale della morte dell’Artico’. Le conseguenze di ciò sono potenzialmente catastrofiche.

Si scateneranno due effetti di enorme portata. In primo luogo, il passaggio da ghiaccio a mare aperto, nell’Artico, in estate, fa diminuire da 0,6 ad appena 0,1 la ‘riflessione all’indietro, nello spazio’ – ‘albedo’ – dei raggi solari; tale diminuzione ha effetti paragonabili a quelli causati dalle emissioni di CO2 negli ultimi 25 anni; essa accelera ulteriormente il riscaldamento dell’Artico stesso e dell’intero pianeta.

In secondo luogo, la diminuzione – e sparizione – della copertura di ghiaccio elimina un sistema di condizionamento d’aria, di vitale importanza per l’Artico; questa attuale situazione causa lo scioglimento dello strato superficiale di permafrost, in mare (sedimenti rimasti nei fondali marini, dall’ultima era glaciale); tale scioglimento significa liberazione, nell’aria, di idrati di metano (contenuti nel permafrost); il fenomeno sta già avvenendo nel Mare Siberiano Orientale, nel Mare di Laptev, nel Mare di Kara.

Sintetizza Gio Ferrara:

Secondo i due scienziati massimi studiosi mondiali del fenomeno (Natalia Shakhova e Igor Semiletov) l’attuale trend di riscaldamento planetario può causare già entro pochi anni il rilascio, nell’atmosfera terrestre, di almeno 50 Gt (50 miliardi di tonnellate) di metano. Un termine di paragone: al momento il rilascio annuo di CO2, nell’atmosfera terrestre, è di circa 35 Gt.

Ma c’è dell’altro: il metano è un potentissimo ‘gas-serra’; a parità di quantità è almeno 23 volte più potente della CO2, nell’effetto di riscaldamento atmosferico.

L’attuale rilascio di metano, dai sedimenti che si stanno scongelando, può provocare – già entro il 2040 – un ulteriore +0,6° di aumento della temperatura media della Terra. È un aumento considerevole, in così pochi anni.

Tale rilascio di metano può anticipare di almeno 15 anni – forse addirittura di 35 – il momento in cui la temperatura media della Terra è di +2°, rispetto all’epoca pre-industriale.

Ossia significa che tale momento potrebbe verificarsi già nel 2040, forse addirittura già nel 2035. Nel 2050 potremmo già essere a +2,5°. La rapidità di tale processo – già iniziato – può significare una catastrofe, per l’umanità.

Il rilascio, già in corso, di metano, dai fondali marini artici, è uno dei più grandi e urgenti rischi immediati che l’umanità deve affrontare. Inoltre occorre tener presente che un fenomeno analogo può scaturire anche dallo scongelamento del permafrost terrestre: contiene una quantità di metano probabilmente ancora superiore alla già enorme quantità presente in quello marino. Lo scongelamento del permafrost terrestre crea una miscela di metano / anidride carbonica / protossido di azoto: tutti ‘gas-serra’.

Anche questo fenomeno è già iniziato (Siberia). Gli scienziati che se ne occupano stimano che già entro il 2040 causerà il rilascio, nell’atmosfera terrestre, di una quantità tra 110 e 230 Gt di metano e CO2; entro la fine del secolo la quantità è stimata tra 800 e 1.400 Gt.

L’allarme degli scienziati ribadisce un concetto già noto ai ricercatori che da tempo segnalano i tipping points, cioè i punti di non ritorno nel degrado delle condizioni di vita sul Pianeta. Superati certi limiti, gli effetti non sono lineari ma possono intensificarsi in modo imprevedibile, con conseguenze disastrose per l’intera umanità. Un altro appello diffuso in questi giorni proviene dallo Stockholm resilience center: un rapporto curato da Johan Rockström e da Ingo Fetzer ci avverte che il pianeta è in grado di alimentare oltre dieci miliardi di persone (a tanto arriverà la popolazione nella seconda metà del secolo, se non sarò decimata da catastrofi), ma che è urgente cambiare abitudini alimentari e modalità di coltivazione per ridurre l’impiego di acqua, terra e fertilizzanti e fermare l’impennata nel consumo di carne.

C’è sempre il rischio che questi allarmi abbiano l’effetto inverso. Che la gente, considerando ormai il futuro senza speranza, rinunci alla sfida, come il malato di tumore che sapendo di avere pochi mesi di vita decide di continuare a fumare. Pensandoci, mi è venuto in mente il film “L’ora più buia”, nel quale il primo ministro inglese Winston Churchill trova la forza di continuare a combattere il nazismo, nonostante le bombe che cadevano sulla Gran Bretagna e le sconfitte nel Continente, dopo un giro in metropolitana nel quale viene confortato dalla solidarietà dei cittadini che incontra.

L’episodio mostra una situazione di sostanziale fiducia tra governanti e governati. Tutto il contrario di quello che accade adesso, come ci racconta una rilevazione dell’Edelman Trust Barometer dalla quale risulta che due terzi dei cittadini (ma con percentuali ancora più alte nei Paesi industrializzati) non ha fiducia nella capacità dei governi di far fronte alle sfide del presente e del futuro.

Certo, la percezione del pericolo e della necessità di reagire era ben più forte quando la Gran Bretagna era in guerra. Oggi gli allarmi su clima, diseguaglianze, perdita della biodiversità incidono molto meno sulla nostra vita quotidiana, anche se alcuni effetti, come i fenomeni meteorologici estremi, cominciano a essere avvertiti pesantemente. Spetta dunque ai governi, con il concorso di imprese e società civile, alzare il livello della sensibilità comune e far scattare quel senso di unità di fronte al pericolo che ancora manca.

La spinta decisiva verso questo cambiamento di percezione può provenire dall’Europa, grazie al forte impegno nella realizzazione dell’Agenda 2030 della nuova Commissione di Bruxelles. Questo impegno può avere anche riflessi positivi sul green new deal italiano, se sapremo darci strumenti adeguati per sfruttare i fondi e le opportunità offerte dall’Unione. Ne ha parlato il portavoce dell’ASviS Enrico Giovannini, nell’audizione presso la Commissione Affari europei della Camera dei deputati per “L’indagine conoscitiva sulle politiche dell’Unione europea per l’attuazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”. L’ASviS farà il punto sui progressi verso uno sviluppo sostenibile compiuti nella nuova Legge di bilancio, con l’analisi che verrà presentata il 26 febbraio. È necessario però un monitoraggio continuo, anche con una legge annuale sullo sviluppo sostenibile e con una più intensa interazione su questi temi tra Governo, regioni ed enti territoriali.

Una parte importante della battaglia per un futuro sostenibile sarà affidata alla innovazione e alla ricerca. Alla vigilia della Brexit, un articolo dell’Economist ci racconta che Dominic Cummings, chief advisor del premier Boris Johnson, ha dichiarato che intende fare della Gran Bretagna “il miglior posto al mondo per chi è in grado di inventare il futuro”. In sostanza, il governo di Londra vuol dar vita a una agenzia simile alla Defence advanced research project agency (Darpa), l’ente americano che ha stimolato la nascita del personal computer, di internet, del laser e del Gps. Ma mentre la Darpa fu istituita negli anni ’50 per rispondere alla supremazia sovietica in campo spaziale e aveva soprattutto finalità militari, la nuova agenzia britannica avrà un civilian focus, con molti soldi e poca burocrazia.

L’Unione europea sarà in grado di impegnarsi adeguatamente nelle ricerche per costruire il futuro? È stato appena nominato il panel Esir (Economic and societal impact of research and innovation), un gruppo di 16 esperti che forniranno consulenza indipendente all’esecutivo Ue su come la futura politica di ricerca e innovazione possa supportare al meglio lo sviluppo sostenibile e le priorità della Commissione von der Leyen. Sarà presieduto dalla belga Sandrine Dixson-Declève, copresidente del Club di Roma. Nel gruppo c’è un’importante presenza italiana, con Francesca Bria, che è anche presidente del Fondo nazionale innovazione, Andrea Renda ed Enrico Giovannini.

In conclusione, la sfida per affrontare i rischi del futuro si gioca su vari piani: politiche governative lungimiranti, nuove tecnologie, ma anche, e forse soprattutto, un intenso coinvolgimento dell’opinione pubblica, che deve percepire l’importanza della sfida e deve essere preparata ad affrontarla, senza farsi fuorviare da chi, come il presidente americano Donald Trump, ironizza sulle Cassandre ma in realtà nasconde la testa sotto la sabbia.

di Donato Speroni, Responsabile della Redazione dell’ASviS

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