Ho ricevuto una lezione di resilienza. Da un bambino di 10 anni. Mio figlio. Questa estate al mare. Una giornata diversa e particolarmente eccitante, perché con amici avevamo deciso di fare una gita di tutto il giorno in barca.
Dopo il primo bagno e i primi tuffi, Paolo si seziona un dito della mano con la scaletta, mentre tenta di risalire in barca. Sangue, dolore, lacrime, molto spavento. Anche se nulla di grave. Solo un polpastrello diviso a metà. Sono riuscita a non urlare e a dire soltanto: “Tutto a posto!” e poi “Danieleeee (mio marito, ndr) puoi venire un attimo. Grazie” (si era allontatanto a nuoto così tanto da rischiare di essere recuperato da una ong).
Dopo il rocambolesco viaggio verso l’ospedale che meriterebbe un post ad hoc, con affondo sulla sanità al Sud, siamo arrivati al pronto soccorso (anche se chiamarlo “pronto” è particolarmente ottimistico). Qui Daniele, stoico, nella sala di attesa ha rievocato le sue numerose suture infantili con una sorta di sadica nostalgia. Quindi è arrivato il momento del piccolo intervento. Anche io sono stata stoica nell’ostentare serenità e soprattutto nel non svenire. Devo ringraziare il medico che, nonostante fosse impegnato a ricamare il dito del nano, si è preoccupato di farmi sedere. Probabilmente allarmato dalla tonalità lunare della mia faccia, nonostante fossi reduce da 10 giorni di sole salentino. Evidentemente anche la melatonina non regge alla vista di polpastrelli smembrati.
Alla fine della giornata, Paolo, dopo aver comunque pianto e avermi risposto senza esitazione: “Anche io!” alla mia esternazione: “Vorrei tanto essere al tuo posto”, mi ha stupita.
Fuori dall’ospedale con la sua fasciatura e la consapevolezza che per il resto della vacanza non avrebbe più potuto tuffarsi in mare, invece di lamentarsi ha detto: “Dopotutto è stata una esperienza interessante, perché ho provato una sensazione nuova. Non avevo mai avuto così tanta paura”. Ne abbiamo parlato un po’ e alla fine siamo giunti alla conclusione che anche quella brutta giornata è stata utile e ci ha resi tutti un po’ più forti. Io avevo ripreso un colore umano, mentre Paolo contava le cicatrici di suo papà.
Le paure restano, non si diventa eroi – mica siamo in un film dalla Marvel – però, piano piano, si impara ad affrontarle, conoscendole e accettandole come possibili presenze nella nostra cornice quotidiana.