Passione e Competenza per un\'Italia miglioreFormare il capitale umano per un futuro di nuove sfide

Armi, Lgbtq, evasione fiscale, religione, diversità, lavoro minorile, animali, droghe, gioco d’azzardo, alcolici, genere, salario equo, impatto ambientale, obesità, repressione politica, #MeToo, li...

Armi, Lgbtq, evasione fiscale, religione, diversità, lavoro minorile, animali, droghe, gioco d’azzardo, alcolici, genere, salario equo, impatto ambientale, obesità, repressione politica, #MeToo, libertà d’espressione, classi sociali, disabilità, diritti dei minori, filiera etica, cambiamento climatico, aborto, immigrazione, matrimoni omosessuali, senzatetto…

Questo elenco, riportato dalla Rassegna stampa del Corriere della Sera, è tratto da un articolo di Alan Rushbridger su Quartz, nel quale si sostiene che le imprese per affrontare il futuro hanno bisogno non solo di un Ceo, Chief executive officer e di un Cfo, Chief financial officer, ma anche di un Cmp, un Chief moral philosopher, perché le questioni che si troveranno ad affrontare saranno sempre più complesse, coinvolgendo svariati problemi etici essenziali alla loro sopravvivenza.

Non è molto lontana da questa considerazione anche l’inchiesta di copertina dell’Economist “What it takes to be a Ceo in the 20s”, dedicata alle nuove figure di capi azienda nel prossimo decennio e che conclude nell’editoriale:

Infine, i nuovi boss devono avere chiaro che le imprese vanno guidate nell’interesse di lungo termine degli azionisti. Questo significa che non si può essere scostanti e miopi. Per esempio, ogni business deve avere il buon senso di affrontare i rischi del cambiamento climatico.

Il problema della complessità, che emerge con chiarezza quando si parla della guida delle aziende nelle sfide del futuro, riguarda però tutto il capitale umano: mentre in passato per il lavoro servivano capacità specifiche, che magari con qualche aggiornamento rimanevano le stesse per svolgere un mestiere per tutta la vita, oggi non solo i cambiamenti tecnologici si sono fatti più frequenti, ma è anche probabile dover affrontare mansioni totalmente diverse nell’arco degli anni lavorativi. Serve preparazione, ma anche capacità di adattarsi a situazioni nuove. Ce ne rendiamo conto nella preparazione dei nostri giovani? Con il bilancio demografico diffuso martedì 11, l’Istat ci ha detto che nel 2019 abbiamo toccato il record negativo nella nascita dei figli: bisogna risalire alla prima guerra mondiale, quando i potenziali padri erano al fronte, per trovare un livello di nascite così basso, 435mila nati vivi a fronte di 647mila decessi.

Abbiamo pochi giovani e non facciamo abbastanza per formarli. Lo ha rilevato anche il portavoce dell’ASviS Enrico Giovannini, in una recente puntata di “Scegliere il futuro”, la sua rubrica su Radio radicale.

In effetti il nostro Paese si caratterizza per una quota di laureati nettamente inferiore a quella degli altri Paesi europei; per esempio i nostri giovani nella fascia di età 30-34 anni sono laureati nel 27,8% dei casi contro un valore del 40,7% europeo, tra l’altro, in linea con il l’obiettivo che l’Europa si era data proprio per il 2020. È vero, c’è stata una crescita maggiore in Italia negli ultimi anni rispetto a quella europea, ma perché appunto partivamo da un valore più basso e questa crescita ha riguardato in particolare le donne; ma siamo ancora lontanissimi dai livelli dei nostri competitor.

Le ragioni di questo ritardo sono numerose. In primo luogo la difficoltà di accesso per le persone che non hanno condizioni economiche in grado di sostenere i costi, ma anche la mancanza di strutture per il diritto allo studio, studentati dove le persone meno abbienti possano essere ospitate durante gli studi universitari; questo rende anche più bassa la mobilità geografica, benché ci sia una tendenza molto chiara di tantissimi studenti del Sud a emigrare verso il Centronord anche per completare gli studi universitari. (…)

Una delle ragioni per cui molti studenti preferiscono non iscriversi all’università è che poi sul mercato del lavoro questa laurea non è necessariamente riconosciuta dalle imprese in termini di differenziale salariale. Spesso i laureati vengono messi a fare lavori da diplomati e vengono pagati come diplomati; in più, la progressione di carriera in Italia e molto più lenta rispetto a quella di altri Paesi soprattutto per le persone in gamba. Si capisce da questo punto di vista che il tema non riguarda solo la politica, ma anche il funzionamento complessivo del nostro sistema: la altissima quota di piccole imprese orientate al mercato interno con bassa produttività, che quindi pagano bassi salari. Questa problematica frena anche gli incentivi a studiare e arrivare alla laurea. Come si vede il tema è complesso, riguarda non solo gli aspetti sociali ma anche quelli economici. La speranza naturalmente è che il Governo, ma anche le imprese e la società nel suo complesso pongano molta più attenzione a questi aspetti, non solo investendo di più ma anche cambiando la mentalità, capendo che il capitale umano è il fattore di crescita che determinerà il nostro futuro, su cui dunque bisogna investire per modificare i trend attuali cercando di raggiungere il prima possibile i livelli degli altri Paesi europei.

Lo stesso tema è stato affrontato anche dal Forum education che si è tenuto a Camogli nei primi due giorni di febbraio. Si è sottolineato che esistono situazioni molto diversificate e che è necessario partire dal territorio. Come ha detto Marco Rossi Doria:

L’Italia è un Paese che fa pochi figli e perdiamo troppi ragazzi che vivono in una situazione di povertà e di esclusione. Bisogna recuperarli nei territori di massima crisi, ma anche nelle tante periferie che abitano il nostro Paese. C’è un lavoro enorme da fare per riconquistare la conoscenza di centinaia di migliaia di ragazzi.

Sula stessa linea anche Fabrizio Barca:

Esistono pratiche molto interessanti realizzate da genitori, insegnanti e giovani, che però non divengono sistema. Se queste condizioni ci sono, la cosa migliore è partire dai territori.

L’educazione allo sviluppo sostenibile è una delle sfide più importanti che l’ASviS affronta, con i suoi accordi col ministero dell’Istruzione, i rapporti con la Rus (la rete delle università per lo sviluppo sostenibile), il nostro corso e-learning, il libro “Un mondo sostenibile in 100 foto” liberamente scaricabile da professori e studenti, per non parlare delle decine di incontri nelle scuole, dalle medie ai master per illustrare l’Agenda 2030 e le grandi tematiche legate al futuro. La conferma dell’interesse da parte del mondo della scuola ai temi dello sviluppo sostenibile si ha anche dalle risposte al concorso Miur – ASviS aperto alle classi di ogni ordine e grado, giunto ormai alla sua quarta edizione. Quest’anno hanno manifestato l’intenzione di partecipare oltre 600 scuole, circa il triplo dello scorso anno. Entro la scadenza finale del 18 aprile possiamo dunque aspettarci elaborati da un numero anche superiore di classi.

Tra le cronache della settimana, segnaliamo che l’ASviS, venerdì 7 alla Farnesina, ha presentato lo studio sugli indicatori SDGs in Europa, con un quadro dei comportamenti e dei ritardi di ciascun Paese dell’Unione. All’incontro hanno partecipato 170 persone, tra ambasciatori, responsabili di centri culturali esteri in Italia, funzionari di organizzazioni internazionali. L’obiettivo è stato innanzitutto quello di presentare l’ASviS come una “buona pratica” di mobilitazione di imprese, mondo della cultura e società civile, replicabile anche all’estero per stimolare la politica a prendere le decisioni necessarie per attuare l’Agenda 2030. Quest’anno anche il Festival dello sviluppo sostenibile si svilupperà a livello internazionale, con eventi nelle sedi diplomatiche italiane all’estero.

di Donato Speroni, Responsabile della Redazione dell’ASviS

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