La lotta al coronavirus ha mobilitato il mondo. Isolamento di intere città, blocco dei viaggi aerei, diffusione degli scanner e dei test, immediata ricerca di un vaccino: sotto la guida dell’Organizzazione mondiale della sanità e con forti risposte anche da parte degli stati nazionali, il rischio della pandemia è balzata al centro delle cronache e l’umanità sta dimostrando di saperla affrontare, anche accettando costi economici ingentissimi. Non si è mai vista in precedenza una risposta globale a questo livello.
Perché lo stesso non avviene per la crisi climatica? La risposta è facile: il pericolo non viene percepito con altrettanta urgenza. Eppure gli allarmi si moltiplicano. La settimana scorsa abbiamo riferito delle gravi incognite legate allo scioglimento dei ghiacci artici. Ora un segnale molto grave ci viene da Bloomberg green:
Abbiamo dozzine di modelli sul clima che per decenni hanno indicato concordemente quanto tempo ci vorrà per riscaldare il pianeta di circa 3° centigradi. Si tratta di un esito che sarebbe disastroso, con città inondate, crollo delle produzioni agricole, temperature mortali, ma c’era un costante consenso sui tempi di queste complicate simulazioni.
L’anno scorso, invece, senza che lo si percepisse immediatamente, in alcuni dei modelli ha cominciato a fare molto caldo. Gli scienziati che gestiscono questi sistemi partivano dalle stesse premesse sulle emissioni di gas serra usate in precedenza, ma ottenevano risposte molto peggiori, alcune addirittura oltre 5° centigradi: uno scenario da incubo.
Gli scienziati hanno cominciato a confrontarsi sulle ragioni e sull’attendibilità di questo peggioramento. Ci vorranno mesi per mettere insieme delle risposte e ancora non c’è accordo sull’interpretazione dei risultati più scottanti. C’è da preoccuparsi perché questi stessi modelli hanno interpretato con successo le proiezioni sul global warming per almeno mezzo secolo; i loro risultati continuano a fare da sfondo a tutte le più importanti analisi sugli obiettivi climatici, compreso il sesto rapporto enciclopedico dell’Ipcc, che verrà reso pubblico il prossimo anno. Se lo stesso ammontare di inquinamento climatico creerà un riscaldamento più rapido di quanto non si pensava in passato, l’umanità avrà meno tempo per evitare gli effetti peggiori.
Un altro appello drammatico ci arriva dall’australiano Breakthrough – National centre for climate restoration: i ricercatori di questo centro prevedono che se non si interverrà sui fattori che determinano l’emergenza climatica, la nostra civiltà arriverà presto alla fine.
Entro il 2050 i sistemi umani potrebbero raggiungere un punto di non ritorno in cui la prospettiva di una Terra in larga misura inospitale può provocare il collasso delle nazioni e dell’ordine internazionale. Pertanto, s’impone una mobilitazione di emergenza del lavoro e delle risorse, estesa a tutta la società e paragonabile all’impegno che si ebbe nel corso della Seconda guerra mondiale. Una parte di questa soluzione dovrebbe essere un programma tipo piano Marshall per accelerare la fornitura di energia da fonti a zero emissioni e l’elettrificazione al fine di mettere a punto una strategia industriale zero carbon.
Cassandre, profeti di sventura, come dice il presidente americano Donald Trump? Purtroppo, come ha scritto anche Bloomberg Green, i modelli funzionano bene. Lo conferma un articolo di Nature:
Già i primi modelli pubblicati tra il 1970 e il 2007 hanno previsto con accuratezza il riscaldamento globale che si è verificato negli anni successivi.
Ma è davvero possibile una mobilitazione globale per accelerare la riconversione energetica e le altre misure necessarie a evitare il collasso della civiltà, come invocano i ricercatori australiani? Una risposta collettiva non può che partire dai Paesi più ricchi, che dovrebbero cambiare i loro modelli di consumo e aiutare a crescere in modo sostenibile i Paesi che ancora devono portar fuori dalla povertà centinaia di milioni di persone: impegni gravosi, che una politica completamente schiacciata sull’attualità non è in grado di assumere. Come abbiamo scritto più volte, i segnali più positivi di risposta provengono dalla nuova Commissione europea e dal suo European green deal, che stiamo esaminando in tutte le sue implicazioni nella trasmissione di Radio radicale “Alta sostenibilità”, a cura dell’ASviS. Mercoledì la Commissione ha pubblicato la nuova “Economic governance review”, un riesame dell’efficacia del quadro di sorveglianza economica, aprendo un dibattito pubblico sul suo futuro, a opera dei commissari Valdis Dombrovskis e Paolo Gentiloni. Quest’ultimo ha dichiarato:
Le politiche economiche in Europa devono affrontare le sfide odierne, che sono palesemente diverse da quelle di un decennio fa. La stabilità resta un obiettivo essenziale, ma vi è l’altrettanto urgente necessità di sostenere la crescita e in particolare di mobilitare gli enormi investimenti che servono per affrontare i cambiamenti climatici.
Uno dei temi al centro del dibattito è proprio la possibilità di far uscire gli investimenti ambientali dai vincoli di bilancio dettati dal trattato di Maastricht. Nel documento infatti si afferma:
Dobbiamo chiederci fino a che punto l’attuale cornice fiscale è in grado di supportare le riforme e gli investimenti, compresi quelli in capitale umano, necessari per la transizione a un’economia climate neutral, efficiente nell’uso delle risorse e competitiva, adeguata all’età digitale, in modo tale da non lasciare indietro nessuno. Ciò porta a una ridefinizione della validità delle attuali clausole di flessibilità in termini di finalità e di applicabilità al fine di facilitare la giusta tipologia e un adeguato livello di investimenti, pur preservando la sostenibilità del debito. Inoltre dovremmo riflettere sul ruolo della cornice fiscale per rendere più verdi i bilanci nazionali.
Dombrovskis e Gentiloni riconoscono anche che è necessario fare un grande sforzo di semplificazione e di comunicazione, perché le regole europee sono diventate complicate e incomprensibili, facendo di Bruxelles il bersaglio di continue critiche, spesso immotivate. Annotiamo che un esempio lo abbiamo avuto in questi giorni, con l’attacco alla Commissione per non aver agito sul coronavirus, quando in realtà le politiche sanitarie sono tutte di competenza nazionale.
In realtà le istituzioni europee hanno poteri limitati: fino a quando non verranno rafforzate, il nostro continente magari si dimostrerà più avanti degli altri sulla strada della sostenibilità, ma comunque non si muoverà con velocità sufficiente. In un articolo sulla Repubblica l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta ha invitato a cogliere l’occasione della Brexit per accelerare su tutti quei fattori d’integrazione (fisco, istruzione e problemi sociali) sui quali la Gran Bretagna aveva finora esercitato i suoi veti, puntando a trasformare i commissari europei in veri e propri ministri. Ma siamo ancora lontani da questo risultato; l’Europa non è ancora sul sentiero della sostenibilità, come dimostra il rapporto “The European Union and the Sustainable Development Goals” che l’ASviS presenta oggi alla Farnesina, alla presenza delle rappresentanze diplomatiche in Italia. Il rapporto offre la prima analisi comparata di tutti i Paesi europei per ciascun Obiettivo di sviluppo sostenibile.
Può la società civile stimolare la politica ad accelerare il cambiamento? Un’idea della complessità di questa svolta ci viene da un articolo dell’economista Pia Saraceno per il sito InPiù:
Nelle raccomandazioni del Fmi a conclusione della missione in Italia spunta la necessità dell’introduzione di una tassa ambientale di 70Euro/ton di CO2 emessa. Una raccomandazione che nasce al di fuori del contesto del Green deal europeo, ma ne mette implicitamente in discussione gli strumenti. Nell’ottobre scorso la pubblicazione in un articolo del principale esperto ambientale del Fmi aveva sostenuto la superiorità della carbon tax rispetto al sistema Ets adottato in Europa. (…) Per far fronte agli evidenti problemi di equità e alla necessità di innalzare gli obiettivi rispetto a quelli dichiarati, il Fmi avanzava la proposta di un prezzo della CO2 di 75Euro/ton a livello globale e di utilizzare le entrate in ciascun paese per politiche compensative per gestire la transizione: per le persone e i settori maggiormente colpiti, per ridurre il deficit fiscale o pagare un eguale dividendo a tutta la popolazione. Queste proposte, fortemente criticate al momento della pubblicazione del rapporto ambientale, soprattutto per l’iniquità nei confronti dei paesi in via di sviluppo (e in generale per i paesi con consumi pro capite significativamente inferiori alla media), non hanno trovato accoglienza nei singoli paesi e a livello globale dove il coordinamento è diventato comunque difficile. Ora la proposta rispunta come raccomandazione al nostro paese. E’ evidente la forte astrattezza del Fmi che sembra andare per parole d’ordine senza coordinarsi con i dati di realtà.
La conclusione di Saraceno, sulla possibilità di accoglimento di una carbon tax in Italia, è evidentemente pessimista. Una tassa su tutti i beni, correlata all’emissione di gas serra necessaria per produrli, è certamente una misura drastica, che inciderebbe sul livello dei prezzi, ma non sarebbe un costo insostenibile. Si calcola che le emissioni di CO2 nell’anno per ciascun italiano ammontino a circa cinque tonnellate, forse sei o sette se teniamo conto anche delle importazioni. L’aggravio, misurato a spanne, sarebbe dunque di circa 500 euro per persona all’anno nell’ipotesi avanzata dal Fmi. Non poco, ma neppure impossibile, se accompagnato da adeguate misure sociali che potrebbero avvalersi dei fondi raccolti con la tassa.
Ci possono essere anche altre soluzioni, ma senza interventi coraggiosi la crisi climatica non si può affrontare. Quello che manca è dunque un modello che non ci predica soltanto il collasso della nostra civiltà, ma che ci dica cosa dobbiamo effettivamente fare per salvarci: abbiamo una bussola nell’Agenda 2030, importante stimolo per tante buone pratiche che l’Alleanza cerca in ogni modo di valorizzare, ma ancora ci manca una mappa condivisa per condurre l’umanità alla salvezza.
di Donato Speroni, Responsabile della Redazione dell’ASviS