Strani giorniPer favore, non chiamiamola guerra questa emergenza da coronavirus

Mia nonna la guerra l’ha vista davvero. Anzi, ne ha viste due. Mondiali. E in mezzo pure il fascismo. Quando me ne parlava, me ne parlava a tavola. A volte mi parlava dei bombardamenti, a volte di quanto fossero orrendi i fascisti. Ma sempre, c’era un elemento comune nelle sue storie: la fame.
«Tu, nipote, non puoi sapere quanto è brutta la fame».
Mi disse che una volta, dalle fave, dovettero togliere alcuni insetti che avevano nidificato tra le scorte.
«Oggi le butteremmo. Ai tempi, si toglievano e si mangiava. Altrimenti…»
Altrimenti niente. L’alternativa era il niente.
Un’altra volta lei e sua sorella trovarono delle arance e le mangiarono. Tremarono dal freddo subito dopo, mi disse. Fu quello l’unico pasto della giornata.
«C’era la FAME».
E quella parola la diceva in modo grave, facendo vibrare l’aria attorno.

Tutto questo per dire che quando sento dire che “siamo in guerra”, mi viene da sorridere. O da gridare, se sono arrabbiato. Perché non siamo in guerra. Non ci sono bombe che piovono sulle nostre case e non siamo costretti a mangiare legumi con le larve degli insetti dentro. Forse c’è qualche fascista di troppo, affacciato ai balconi o armato di droni e dirette televisive. Ma in linea generale, stiamo nelle nostre case, relativamente al sicuro, e mangiamo ogni ben di Dio. E i supermercati sono pieni, alcol e disinfettanti a parte. Basta vedere le bacheche dei nostri profili, in cui fotografiamo ricette di ogni tipo, dai nostri cavalli di battaglia a pietanze mai preparate prima di adesso. E va benissimo, sia chiaro. Non dico di non farlo. Ma il termine guerra, in tutto questo, non c’entra nulla. Lasciamolo perdere.

Il lessico “guerriero” è solo una scusa che ha il potere per rendere oltremodo gravosa una situazione che è di per sé grave. Se tutto è emergenza, anche le misure prese saranno urgenti e pazienza se passiamo sopra la democrazia (no, non sto criticando il governo, ma le dinamiche messe in atto, anche nei comportamenti privati). Mussolini non venne processato con tre gradi di giudizio, ad esempio, e si beccò le pallottole sul petto. Ma allora sì, si era in guerra. Il lessico guerriero aiuta, inoltre, la narrazione di quel senso di patria che non ha basi solide (anzi, che non ha basi, per quel che mi riguarda e più in generale) e i cui pilastri fondanti vanno ricercati più nella frustrazione per un passato per nulla glorioso – ho già parlato di fascismo, mi pare – che ci ostiniamo a recuperare, magari sperando di bypassare le miserie del presente.

Tradotto in termini più concreti, è fare un po’ come quel tipo che non rimorchia mai ed è costretto a cercare sollievo erotico su certi siti, pensando di aver un qualche merito nell’orgasmo, per nulla spontaneo, provato da un altro e per esigenze di copione. E la masturbazione, per dirla con Woody Allen, dovrebbe essere fare del sesso con chi stimi davvero, non il rifugio di una vita di frustrazioni. E ciò vale anche per quella intellettuale. Per cui non chiamiamola guerra, per favore, questa emergenza da covid-19. Chiamiamola pandemia. Con tutto ciò che comporta. Con tutte le sue conseguenze ed errori. Poi sarà il tempo dei bilanci su precise responsabilità politiche e individuali. Senza alcuna scusante determinata da scelte che possono essere fatte soltanto in “tempo di guerra”. Con le bombe sulla testa, le dispense vuote e i nemici alle porte della città.

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