TantopremessoQuer pasticciaccio brutto de Via Arenula

La maretta ai piani alti del Ministero della Giustizia non ha solo implicazioni di natura politica ma deve spingere a valutare le ricadute in termini di funzionamento della macchina dello Stato

C’è decisamente maretta ai piani alti di Via Arenula a Roma, nelle stanze che contano al Ministero della Giustizia: le vicende che, da ultimo, hanno interessato alcune nomine nel ministero meritano un’analisi dal punto di vista istituzionale e di funzionamento della macchina. La scintilla nasce, come noto, dalla scarcerazione e messa ai domiciliari lo scorso mese di aprile di alcuni detenuti sino a quel momento in regime di carcere duro (cosiddetto 41-bis) da parte dei giudici incaricati di valutarne lo stato di salute. La scarcerazione, è stato sostenuto, seguiva la mancata risposta da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) del ministero circa l’individuazione di strutture alternative e sorvegliate cui destinare i detenuti per mafia in 41-bis. Si capirà se tale esito sia stato conforme alla legge o se fosse stato opportuno, invece, disporre un trasferimento in una struttura sanitaria sorvegliata. Sta di fatto che, anche a seguito delle vivaci polemiche sollevate dalla trasmissione “Non è l’arena” su La7, il 2 maggio il capo del DAP Francesco Basentini – al quale erano state già rivolte accuse per la cattiva gestione delle rivolte carcerarie di qualche settimane prima – si dimette, sostituito da Dino Petralia. Nel corso della successiva puntata del 3 maggio di “Non è l’arena”, nel pieno della bufera mediatica, un nuovo scoop: telefona in trasmissione Nino di Matteo, notissimo magistrato oggi componente del Consiglio Superiore della Magistratura, che racconta – riferendo, in maniera assai poco ortodossa, interlocuzioni riservate – che nel 2018 gli era stato proposto dall’allora neo Ministro Alfonso Bonafede di dirigere il DAP. Sostiene, inoltre, Di Matteo che alcune informative avevano dato notizia dell’inquietudine di capimafia rispetto alla sua possibile nomina e che il Ministro aveva pochi giorni dopo cambiato idea, offrendogli il posto che fu di Falcone presso il Dipartimento degli Affari Penali. Interviene in trasmissione, pochi minuti dopo, lo stesso Ministro della Giustizia che si dice esterrefatto di quanto dichiarato e nega che la sua scelta possa essere stata condizionata da quelle informative, cosa che ripeterà in Parlamento l’11 maggio. Insomma, un vero e proprio cortocircuito fra poteri dello Stato che, aldilà delle polemiche di natura politica, che qui non interessano, impongono qualche riflessione. Non sono infatti mancate, anche in questo caso, le polemiche avverso la burocrazia, cui addossare il possibile disguido che ha impedito di dare velocemente risposta ai quesiti dei giudici di sorveglianza, rendendo più difficile il lavoro dei magistrati e facilitando quanto accaduto: i soliti burocrati, insomma. Posto che i fatti saranno acclarati in dettaglio da chi di dovere, forse sorprenderà qualcuno sapere che l’ex capo del DAP era, in realtà, un magistrato. Così come l’attuale capo del DAP. E così come la stragrande maggioranza di coloro i quali, posti fuori ruolo per la durata del loro incarico, ricoprono posizioni dirigenziali all’interno del Ministero della Giustizia, occupandosi della gestione amministrativa degli uffici e delle strutture assegnate. È lecita, allora, una domanda: perché affidare strutture amministrative ad un magistrato? L’esempio del DAP è calzante: su quella struttura grava l’impegno di gestire l’enorme complessità – amministrativa, contabile, di personale – delle carceri Italiane, un gravame da far tremare i polsi e che poco ha a che fare, è del tutto evidente, con la funzione giurisdizionale. Tale funzione è, invece, riservata dalla Costituzione ai giudici, soggetti solo alla legge. Ed è un bene che sia così: nessun economista, sociologo o amministratore pubblico si sognerebbe di amministrare giustizia in un tribunale o di esercitare le funzioni di pubblico ministero. Una bizzarria che la nostra Carta e la legge non consentono. E allora perché vale il contrario? Sia chiaro: qui nessuno intende attaccare i giudici. Il loro lavoro è prezioso ed indispensabile per il corretto svolgersi della dinamica sociale, ed è notorio che in molti sono costretti a compiere il loro dovere in regime di protezione, a causa delle minacce ricevute e del pericolo di vita i cui incorrono per svolgere la loro attività. I nomi di Falcone e Borsellino, fra i tanti, troppi magistrati caduti, ne sono testimoni. Qui si pone un tema più generale che attiene al corretto funzionamento delle istituzioni, per il quale dovrebbe sempre valere il semplice principio per cui a ciascuno spetti di svolgere il lavoro per cui sia competente, quello per il quale ha studiato e si è formato. Senza sollevare in alcun modo casi personali, è ragionevole immaginare che, dal punto di vista delle professionalità possedute, un dirigente amministrativo possa ottenere risultati dignitosi nel gestire strutture che, per essere governate, abbisognano senza meno di rudimenti in materia di diritto amministrativo, contabilità di Stato, management pubblico e, perché no, capacità relazionali e di squadra. A meno, naturalmente, di ritenere che le normali regole di specializzazione professionale non si applichino, quasi per innata disposizione, ai magistrati. Non casualmente Sabino Cassese ha recentemente parlato di “magistratizzazione” del Ministero della Giustizia, aggiungendo che “i magistrati sono scelti per giudicare ma vengono assegnati a compiti amministrativi per cui non sono idonei perché non addestrati, né specializzati a questa funzione”. Se si aggiunge, en passant, l’aspetto tutt’altro che banale della singolare commistione fra potere esecutivo e giudiziario, appare chiaro che ci si trova di fronte ad una anomalia assoluta che dovrebbe preoccupare politica e pubbliche opinioni, sia per l’inusuale assegnazione a funzioni amministrative, sia per la contestuale scopertura di posizioni giudicanti nel sistema giudiziario. Il fenomeno delle carriere parallele per i magistrati destinati a funzioni extragiudiziarie appare, infatti, alla luce delle scoperture di organico e della notoria lunghezza dei tempi dei processi, un tema che dovrebbe entrare nell’agenda di ogni Governo, quale che sia la maggioranza che lo sostiene. In questo quadro, non può allora non provocare sconcerto leggere le intercettazioni delle conversazioni fra Luca Palamara, ex pm sotto inchiesta a Perugia per corruzione, e Fulvio Baldi, capo di Gabinetto del Ministro Bonafede, recentemente dimessosi (anche Baldi, naturalmente, è un giudice): dalla lettura degli scambi, che non hanno naturalmente alcuna rilevanza penale, pare emergere quello che ha tutto l’aspetto di un vero e proprio mercato delle vacche delle nomine, in base al quale si dispone di posizioni da dirigente e dirigente generale nel Ministero della Giustizia, da “assegnare” sulla base dell’appartenenza correntizia in spregio al principio per cui nelle pubbliche amministrazioni il conferimento degli incarichi dirigenziali avviene sulla base di interpelli aperti e competitivi, a seguito dei quali affidare la posizione alla persona più adatta. Sperabilmente. Una patologia che non deve riferirsi alla fisiologia, evidentemente: la quale, nondimeno, rappresenta una vera e propria invasione di campo che riemerge periodicamente in tutta la sua attualità e che, seppur limitata nei numeri rispetto all’insieme dei giudici in servizio oggi in Italia, deve destare l’attenzione di chiunque abbia a cuore il corretto funzionamento della macchina dello Stato.