Strani giorniPerché la morte di un’elefantessa ci ha colpito così tanto?

Potete concederci un momento di pietà per l'elefantessa uccisa? Non toglie niente al dolore e alla rabbia, verso il resto del male del mondo.

Vorrei parlare della morte dell’elefantessa in India. Con una piccola premessa: siamo un popolo, noi italiani, a cui piace la polemica. Inutile girarci intorno. Ogni evento è come una scintilla in una polveriera: basta poco ed esplode la nostra indignazione. In varia misura, ci riguarda tutti e tutte. Poi ci sono modi e modi: dai tentativi di ragionamento, anche (iper)critici, alle urla più scomposte. Passando per gli inevitabili, ahinoi, discorsi d’odio che sembrano essere valuta “argomentativa” tra le più solide dei social. Per non parlare del contesto: il mare magnum del web. Che, ricordiamolo, in questo periodo di pandemia ci ha forse tenuti in connessione oltre al “dovuto” (dove per dovuto si intenda: ordinario).

Per tali ragioni limiterò la mia riflessione alla mia bolla. Senza alcuna pretesa di parlare per terzi va da sé. E la mia bolla oggi si divideva, grosso modo, in tre grandi gruppi: c’era chi è stato mosso a pietà per una storia terribile, chi ne ha fatto una questione di benaltrismo – con l’immancabile riferimento alla fame dei bimbi in Africa che dovrebbe avere la priorità nella gerarchia del dolore – e chi ne ha fatto spunto per una critica, più in generale, sul maltrattamento degli animali negli allevamenti intensivi. Sia ben chiaro: non ne faccio una questione di tifoseria. Prendendo tutte le distanze da chi, sempre sui social, ha invocato morte e vendetta per gli indiani che hanno messo i petardi nel frutto poi ingerito dall’elefantessa, non voglio prendere “le parti di”, o andare contro qualcun altro.

Mi sono interrogato, invece, sulle ragioni per cui l’immagine di quella bestia ferita a morte e immersa nel fiume mentre aspettava la sua fine, ci ha toccato così profondamente. Parlo di me, come premesso. E andando per ordine sparso: mi ha colpito l’assurdità di una morte siffatta. Mi ha inorridito la sua efferatezza. Mi ha toccato la banalità del male che ne ha fatto da contorno: l’elefantessa ha trovato il frutto e lo ha mangiato. Per nutrire se stessa e la vita che portava dentro: poi, l’esplosione. Mi sono immedesimato nella paura di fronte a ciò che non è riuscita a comprendere. Nel fuoco che invade la sua bocca. Nel dolore, di certo lancinante. In quei pensieri, per quanto lontanissimi dalla complessità del pensiero umano, forse confusi. E mi sono chiesto quali fossero le sue sensazioni mentre moriva. Senza un perché, aggiungo. Ed è tale mancanza che, forse, ci sconvolge.

Sia ben chiaro, a scanso di equivoci: non è stato uno scherzo crudele andato a segno. Non c’è stato sadismo, fine a se stesso. Ciò rende questo episodio meno crudele, ma non lo assolve. Si è trattato di una trappola per cinghiali che ha colpito il “bersaglio” sbagliato. Poi possiamo anche discutere sulla necessità di destinare ad altri animali un destino così brutale. Ma non è questo il punto. Il punto è che alcune persone non riescono a provare questa empatia nei confronti, prima ancora della morte di un animale – di una specie vulnerabile, per altro – dell’imperizia e dell’incuranza dell’essere umano che pensa di poter disporre dell’ambiente e delle creature che lo abitano come se fosse una proprietà esclusiva. Ed è questo il punto della questione.

La questione ambientale, che include il tema dei diritti degli animali, ci dovrebbe toccare tutti e tutte con un approccio critico e, possibilmente, non ideologico. Non si tratta di considerare più importante la vita di un’elefantessa rispetto a quella degli immancabili bambini africani che, per inciso, forse andrebbero trattati come oppressi di un sistema più ampio (con tutto ciò che ne dovrebbe derivare) e non come grimaldello polemico su cui imbastire la diatriba di turno. Anche perché, banalmente, non sarà girando gli occhi dall’altra parte rispetto alla vicenda accaduta in India che si troveranno con la pancia piena. E non credo nemmeno che si tratti, sic et simpliciter, di sensibilità selettiva, per cui fa più pena questo caso che non quello dei maiali al macello o delle galline in batteria.

La morte dell’elefantessa è stata la “notizia calda” di ieri. Se mi si permette un’analogia, è stata come il suono di un’esplosione, in mezzo alla strada, mentre si era impegnati a far tutt’altro. Va da sé che quel “boato” ci ha colpiti, spaventati e impressionati. E, nel “qui ed ora” di tale avvenimento, le nostre antenne si sono drizzate. Per qualcuno, l’orrore della vicenda in sé è stato l’ennesimo tassello di una narrazione più grande. E che potrebbe coinvolgere anche altri fatti chiamati in causa: dagli allevamenti intensivi alle tragedie che toccano l’umanità tutta. Ci sono, in questo mondo, diversi gradi di crudeltà e di ingiustizia. E tutti possono toccarci, in modo diverso e a seconda del momento e del contesto in cui accadono.

Concordo, poi, con chi sostiene che le tragedie ci dovrebbero toccare tutte. Dalla rivolta dei neri in America alle bestie rinchiuse nei lager che diventano poi i prodotti alimentari che troviamo comodamente nei supermercati. E proprio su questo punto bisognerebbe aprire un discorso serissimo, e molto politico, su un sistema di produzione (capitalistico e neoliberista) che è disumano, insostenibile e che – al netto delle sue crudeltà su uomini e animali – sta facendo fuori il pianeta. Tuttavia, ci potete concedere un momento di pietà per quell’animale che si è lasciato morire in un fiume, nonostante i tentativi fatti da altri esseri umani per salvargli la vita. Non toglie niente al dolore e alla rabbia, verso il resto del male del mondo. Che se non fosse chiaro, del vino di quel calice ce ne è in abbondanza per tutti i palati. Purtroppo.

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