Nelle prossime settimane entrerà nel vivo il dibattito sulla cosiddetta “legge Zan”, il ddl che propone – come titola lo stesso testo di legge – “modifiche agli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale, in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere“. Tradotto in termini molto semplici, si estende un’aggravante se si compiono un atto violento o una discriminazione per motivi specifici. Ovvero se non solo picchio ingiustamente una persona, ma la picchio perché omosessuale. Non solo se la discrimino, ma se la discrimino perché transgender o lesbica.
Non è una cosa nuova, nel nostro ordinamento giuridico. Per la legge attuale, infatti, è reato propagandare «idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico», così come istigare a commettere o commettere «atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». Con la legge Zan si aggiungono altre categorie, ovvero: il sesso, il genere, l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Ciò non va giù a diversi “attori” della scena politica, dalle destre (estreme e populiste) alle associazioni pro-life e pro-famiglia (rigidamente eterosessuale), alle gerarchie ecclesiastiche e via discorrendo. Uno degli “argomenti” più à la page contro il ddl in questione verte su una presunta limitazione della libertà religiosa. Eppure il ddl interviene sui crimini d’odio e le discriminazioni, non certo sul modo di vivere la religione.
Eppure questo timore è un utile cartina al tornasole: perché se questa è la paura di chi osteggia il provvedimento, ovvero la limitazione di professare il proprio credo, si sta ammettendo più o meno implicitamente che la propria religione indulge a quell’odio e a quei crimini. Il che, se vogliamo, è molto interessante. Darsi degli omofobi da soli (e convintamente) sembrerebbe addirittura un atto di grande onestà intellettuale, se solo se ne avesse contezza. E invece è solo il solito piagnisteo da oppressore a cui manca il terreno sotto i piedi. E la cosa sprofonda velocemente nell’abisso del ridicolo. Ancora, a corredo del timore dell’impossibilità di discriminare e esercitare violenza contro le persone Lgbt+, ci si chiede: non bastano le leggi vigenti?
Estendere un’aggravante non limita la libertà di nessuno, semmai amplia la sfera di intervento dello Stato a protezione di categorie vulnerabili. Per fare un esempio: se io picchiassi o discriminassi una persona sarebbe sì reato e basterebbero le norme attualmente in vigore per portarmi in tribunale. Se la picchiassi per il colore della pelle, o per la sua religione (anche quella cristiana, pensa un po’) sarebbe un’aggravante rispetto a un crimine. Ovunque è stata approvata una legge contro l’omo-transfobia, non si è mandato in galera nessuno per la sua fede religiosa. È stato, semplicemente, più facile portare qualche omofobo davanti ad un giudice. Tutto qui. Non è un concetto così difficile, eppure c’è chi utilizza queste polemiche in modo strumentale per avvelenare il dibattito.
Un altro pseudo-argomento, caro ai leader populisti e sovranisti, è quello per cui se c’è una legge contro l’omo-transfobia, dovrebbe esserci una legge contro l’eterofobia. Perché, a sentir loro, non dovrebbe essere più grave picchiare un gay rispetto a un etero. Discorso che si sgretola quando andiamo a vedere quanti sono i casi di aggressioni agli eterosessuali in quanto tali: zero. Così come è interessante vedere quanti di loro vengono discriminati per il loro orientamento sessuale. O, addirittura, in quanti (e quali) paesi l’eterosessualità è considerata un crimine: sempre zero. Non puoi punire, insomma, un crimine che non esiste. Ditelo a tutti i mattei possibili (e anche a qualche giorgia occasionale).
Contrariamente, la comunità Lgbt+ rientra tra quelle categorie vulnerabili, perché le cronache e il sistema politico attuale tende a colpire – tra le altre – anche questa minoranza: basta vedere la lista dei paesi in cui essere gay, lesbiche, transgender, ecc, è punito con la limitazione della libertà di espressione (come in Russia) la reclusione (come in Bangladesh o nella cristianissima Etiopia) o con torture fino alla pena di morte (come in Iran, Arabia Saudita, Sudan). Insomma, in buona sintesi, se la tua fede istiga all’odio, se il tuo sistema di credenze – anche politiche – ti porta a discriminare o genera violenze e sofferenza verso una categoria vulnerabile, il problema è la tua religione, il tuo modo di pensare, le tue scelte politiche. Non una legge – la legge Zan – che cerca di porre rimedio a tutto questo.