Questa è la storia di un viaggio; la puoi leggere su questo blog a puntate oppure, se preferisci, la puoi leggere per intero qui.
Ofelia a Marrakech – quinta puntata (continua da qui)
Di tempo ne ha in abbondanza, in realtà, perché il giovane Tonelli si presenta con un ritardo clamoroso che, unito alla mancanza di talento, lo porta all’uscita in meno di dieci minuti.
«Che tipo!» esclama Gaetano non appena il ragazzo si chiude la porta alle spalle. «Dell’artista ha solo l’arroganza, eppure sono certo che suo padre riuscirà a oliare qualcuno per farlo esporre. Potere dei soldi. Ma veniamo a noi. Seguimi».
Ci trasferiamo nello studio privato di Gaetano, una stanzetta sul retro che, insieme al mio ufficio, alla piccola cucina, al bagno, al ripostiglio e al grande spazio espositivo, forma l’insieme della galleria. Abbiamo anche un magazzino, ma in uno stabile periferico. Oltre a me non ci sono altri dipendenti fissi.
«Ecco qua. Sono due schizzi diversi, uno di come appari, almeno a me, quando ti butti in un progetto e uno di come sei nel resto del tempo. Sono disegni ingenui e stilizzati, ma è per darti l’impressione generale».
E l’impressione generale dice, nero su bianco, che la Charlotte del resto del tempo è solo una fotocopia sbiadita della Charlotte che si occupa di un progetto.
Rimango a lungo in silenzio. So di non poter smentire quell’impressione: Ofelia a Marrakech sono io, dimessa, quasi spaventata. Sembro uno di quei cani feriti che vedevo da piccola quando andavo nell’ambulatorio veterinario di mio padre. È la stessa cosa che vedo nello specchio ogni mattina, ma sono così abituata che non ci faccio nemmeno più caso. Su carta, però, il contrasto con il mio modo di essere quando sono assorbita dal lavoro è un pugno nello stomaco. È solo la visione di Gaetano, non la verità universale, lo so, ma ho insegnato per anni agli studenti proprio la capacità di Gaetano Ferri di mettere nelle sue opere l’essenza delle persone e mi sembra sciocco negare questa capacità solo perché adesso si riferisce a me. Soprattutto, ricordo come ero prima di spegnermi: la passione mi scorreva nelle vene, e non solo nel lavoro.
«Posso portarli a casa?»
«Sono tuoi».
«Grazie. Grazie davvero. Voglio appenderli vicino alla porta, per vederli ogni volta che esco e darmi la possibilità di scegliere chi voglio essere varcando la soglia».
«E chi vuoi essere, Charlotte Martini da Parigi?»
«Non lo so, ma di sicuro voglio smettere di essere il punching ball di Sami. Lo sono stata, ho ancora tutte le cicatrici, ma è ora di darci un taglio definitivo».
Per sottolineare il concetto, in pausa pranzo entro dal primo parrucchiere libero che trovo e accorcio i capelli. Li ho ondulati e li ho sempre portati lunghi, ma quando esco dal negozio ho un carré che sfiora il mento.
Da mesi sono così: prendo decisioni improvvise che mi portano a cambi radicali, ma poi ho una sostanziale incapacità di tener fede alle motivazioni che mi hanno spinta a farli. Mi ripropongo, almeno, di mantenere il caschetto. Penso automaticamente di scriverlo sul diario, ma subito dopo mi ricordo che il diario io non lo tengo più. Ho smesso quando mi sono trasferita da Maude dopo la caduta, perché era diventato solo un resoconto delle ferite che mi lasciavo infliggere da Sami. È un peccato, perché non ho più niente per fermare i pensieri, belli o brutti che siano. Sento che dovrei ricominciare a scrivere, per dare di nuovo spazio a quello che ho dentro, senza sopirlo, senza nasconderlo. Dovrei fare uscire tutto, invece di continuare a cercare di ricacciarlo giù; dovrei prendere i miei scheletri e guardarli in faccia, anche se fa male, perché se non lo faccio saranno sempre lì, dentro al mio armadio, a farmene di più.
«Adesso non mi costringerai a rifarti gli schizzi, vero?» dice Gaetano quando torno alla galleria, indicando la mia testa.
«No, Ofelia è ancora ben ancorata alla sua panchina a Marrakech».
«A proposito, poco fa ha chiamato una donna per propormi i suoi lavori alla Isgrò. Le ho suggerito di lasciarlo almeno morire prima di copiarlo, così può spacciarlo per un omaggio alla memoria».
Gaetano sa essere tagliente, ma il suo è un atteggiamento che condivido: la galleria è un trampolino di lancio incredibile per gli artisti e l’onestà intellettuale è una condizione imprescindibile per potervi accedere.
E la mia, di onestà intellettuale, come è messa? Lato professionale bene, lato personale chissà. Ho paura, penso mentre osservo il disegno di Ofelia, ma di cosa di preciso? Non di essere ferita di nuovo – o forse sì, ma questa è una paura normale. Ho paura che trapeli quel lato di me, quegli anni accanto a Sami che mi sembra mi facciano passare per una perfetta idiota, una smidollata, una che è rimasta lì a subire senza manifestare un minimo di volontà e di carattere. Ho paura non solo che questo lato trapeli, ma anche di averlo dentro di me, di essere così. Ho paura di quello che mi ha spinto, o mi ha convinto, a rimanere accanto a un uomo che mi ha umiliata. Ho paura della pietà, degli sguardi, della compassione, del compatimento. Ho paura di qualcosa che non so nemmeno io cosa è, ma che di sicuro mi ha impedito per lungo tempo di dare un taglio e che, anche adesso che ci sono riuscita, che Sami è alle mie spalle, mi impedisce di essere me stessa. Ho paura delle mie fragilità e non voglio che altri le vedano, non più. Non voglio che nessuno se ne approfitti, non voglio far vedere la fessura in cui infilare il coltello.
Perché vogliamo apparire perfetti agli altri quando nessuno lo è ed è giusto così? Perché ci incaponiamo a voler apparire forti, inattaccabili, quando in realtà è normale essere a volte deboli e insicuri? Tutti sbagliamo, tutti cadiamo, tutti ci rialziamo. È il giusto percorso di crescita, sono esperienze necessarie. Eppure spesso non riusciamo a scendere a patti con la nostra umanità e così finiamo per simulare una vita che non ci appartiene.
Sono confusa. Lo sono da quando ho lasciato Sami, una volta passata l’euforia iniziale. Porto avanti due vite parallele, quella di professionista brillante e quella di Charlotte dimessa, che non si incontrano mai o che, se lo fanno, è solo per pochi attimi in uno specchio, in una vetrina, nel finestrino di una macchina, in un riflesso qualsiasi, dove una delle due immagini è reale e l’altra no e io non so più chi sono, non so più se la parte reale è quella viva o invece è quella morta. Sono due persone in una e io ho paura – tanta paura – che una delle due sia un parassita da eliminare e ho ancor più paura che questo parassita sia Charlotte la gallerista e non Charlotte–Ofelia.
«Charlotte?»
La voce di Gaetano mi riporta sulla Terra. Credo abbia continuato a parlare della finta Isgrò, ma io non l’ho seguito. Lo guardo senza dire niente. Sì, Charlotte sono io. Ma chi sono io? Chi?
Rinuncio a capirlo, almeno per il pomeriggio. Lavoro, mi accordo con alcuni artisti, ricevo dei clienti. Sono allegra, professionale, come lo ero con studenti e colleghi alla Sorbona mentre Sami mi diceva di non rompere. Non posso lasciarglielo fare anche adesso che non c’è più. Non posso permettergli di farmi del male anche da assente. Non posso rovinarmi la vita da sola perché una volta ho lasciato che un uomo lo facesse.
Mi serve una distrazione. Devo uscire dalla bolla di negatività in cui sono sprofondata.
(continua)