Non aprite quelle porteOfelia a Marrakech – un racconto a puntate (6)

arte contemporanea

Questa è la storia di un viaggio; la puoi leggere su questo blog a puntate oppure, se preferisci, la puoi leggere per intero qui.

Ofelia a Marrakech – sesta puntata (continua da qui)

Chiamo mia sorella e le chiedo fino a che ora rimane in ambulatorio. È il vecchio ambulatorio di nostro padre; Isabelle è diventata veterinaria come lui e, da quando sono tornata a Milano, mi piace passare da lei ogni tanto a darle una mano. Mi dice che per oggi ha finito, ma che posso andare da lei per cena. Accetto con piacere. Sono molto affezionata ai miei nipoti e, anche se li ho visti crescere da lontano, ho cercato di essere il più presente possibile. Isabelle ha due anni più di me, quaranta. A ventisei si è sposata con Carlo, suo coetaneo, e hanno avuto le gemelle, Elisa e Camilla; quattro anni dopo è nato Ottavio. Mi piace stare con loro, sono una bella famiglia. C’è caos, allegria, litigate furiose e abbracci continui. Carlo e Isabelle sono diventati genitori giovani, ma hanno affrontato con piglio deciso i problemi e ne sono sempre usciti.

Ripenso al giorno in cui mia sorella mi ha detto di essere incinta. Si era laureata da poco, mentre io frequentavo ancora l’università. Era spaventata, commossa, confusa, un groviglio di emozioni in contemporanea. Vomitava parole e lacrime seduta nella mia camera da letto. Conosceva Carlo solo da qualche mese, era innamorata, ma un figlio era un figlio e lei voleva lavorare con mio padre, voleva prendersi cura di cani e gatti, non di un bambino. O forse sì, ma aveva paura di non esserne capace, non ci aveva mai pensato se non come a una cosa lontana del tempo. Ricordo di averla tenuta tra le braccia senza dire niente e di averla lasciata sfogare. Cosa mai avrei potuto aggiungere? Avevo ventitré anni e nessuna esperienza della vita. Mentre cercavo di farle sentire in tutti i modi possibili la mia vicinanza, è entrata in camera nostra madre. Aveva sentito i singhiozzi da fuori e aveva capito tutto al volo, forse perché, oltre ai singhiozzi, le erano giungi pezzi di frasi o forse per quella straordinaria capacità che hanno le madri di leggere i figli. Fatto sta che si è seduta con noi sul letto, come faceva quando eravamo piccole e ci raccontava le storie, e con calma ha spiegato a Isabelle tutte le opzioni possibili. A ventisei anni si è tecnicamente adulti, ma è difficile avere una visione globale. Eppure Isabelle, forse per tutto l’amore che ha sentito intorno a sé, senza pressioni, alla fine questa visione globale è riuscita ad averla. Ha deciso di portare avanti la gravidanza, ha deciso di sposare Carlo e, siccome a volte succedono anche le cose belle, da tutto questo è derivato solo del bene. Sono una famiglia splendida e unita, nonostante tutte le difficoltà che hanno dovuto affrontare.

«Zia» mi urla Ottavio quando arrivo a casa loro.

Lo abbraccio e mi stupisco di come stia crescendo in fretta. Ha dieci anni ed è un adorabile terremoto.

«Ciao Otti» gli dico. «Come è andata oggi al centro estivo?»

Comincia a raccontarmi tutta la sua giornata nel dettaglio e nel frattempo arrivano Elisa e Camilla, che a settembre andranno al liceo; non mi sembra possibile che sia già passato così tanto tempo. Mentre ceniamo, li guardo tutti i cinque e sento il cuore riempirsi di speranza.

L’amore, quello bello, esiste ed è lì davanti a me, in diverse forme, tutte ugualmente importanti e nessuna malata.

Milano, giovedì 12 luglio 2018

Dieci giorni dopo, undici dall’entrata di Simone Veil al Panthéon, Gaetano mi dice: «Devo andare a Parigi per sistemare l’allestimento della mostra. Vieni con me?»

La domanda mi coglie impreparata, per due motivi: il primo è che sta parlando di Parigi, la mia Parigi; il secondo è che il suo lavoro come artista è separato dal suo lavoro per la galleria, quello per cui mi ha assunta, e non capisco a che titolo me lo stia chiedendo.

«Non devi lavorare» aggiunge, forse cogliendo la mia incertezza. «Gregory sa badare a me e alle mie opere. Ma visto il tuo passato, forse ti interessa vedere l’allestimento da dentro. Mi farebbe piacere anche avere il tuo parere. Sono solo pochi giorni, non ti sto offrendo un mese a Bali, e non credo che la galleria soffrirà troppo senza di noi. Roberta può sostituirci».

Roberta è una delle sue assistenti, precisa e rigorosa come poche persone al mondo. Si occupa della parte finanziaria del lavoro di Gaetano, compresa quella della galleria, e quando io e Gaetano ci dobbiamo assentare fa le nostre veci. Come dice lei stessa, le piace cambiare aria ogni tanto.

E io? Io voglio cambiare aria? Sono tornata a Parigi a Pasqua, per stare un po’ con Maude; mi ha fatto un effetto strano ma non sgradevole, perché la considero ancora casa mia e non sono una di quelle persone che, quando sta male in un posto, poi lo elimina dalla cartina geografica. Il bisogno di voltare pagina non ha cancellato l’amore che provo per la mia città d’adozione. E di certo non cancellerà la curiosità per l’allestimento di una mostra di Gaetano Ferri.

«Accetto» rispondo. «La vera Ofelia a Marrakech viene con te».

Sorrido, pensando ai disegni con le due me, quella brillante e quella appannata, che mi ha fatto Gaetano e che ho attaccato all’ingresso del mio appartamento, in modo da vederli ogni volta che esco e chiedermi chi voglio essere varcando la soglia. Non so se stia funzionando, forse no. Ma so per certo che qualche giorno a Parigi non può che farmi bene, nonostante tutto.

«Mi fa piacere, Charlotte. Partiamo lunedì e torniamo giovedì. Faccio prenotare una camera anche per te».

Non chiedo dove, ma me ne rendo conto solo quando Maude risponde al mio messaggio domandandomi in che hotel dormirò. Non mi importa, in realtà. Mi piace l’incertezza, mi piace che qualcuno, per una volta, si occupi di tutte le cose pratiche per me. Con Sami non era così. Se volevo viaggiare con lui – e ho sempre voluto farlo – dovevo organizzare tutto io; lo trovavo divertente, ma forse avrei dovuto capire che era solo un segno di quanto poco gli importasse delle nostre vacanze. Scaccio il pensiero di Sami e di quella parte della mia vita. O meglio, tento di scacciarlo, perché non ho ancora capito quale è la giusta cosa da fare. Accettarlo, forse. Accettare quella parte di me che non mi piace e, così facendo, superare tutto.

Ma come si fa? Come si fa? Sembra così facile a dirsi, ma poi è tutto un pasticcio. La mente non segue sempre il cuore e nemmeno il cuore segue sempre la mente. Sono lì, a poca distanza l’uno dall’altra, ma non si filano, se non in rare occasioni. Dovrebbero annusarsi, conoscersi, come i cani di mio padre, come i cani di mia sorella. E invece no, il cuore a volte pretende di saperne di più della mente e la mente fa lo stesso, creando casini incredibili come nel mio caso, con una Charlotte viva e una morta, ma nemmeno morta del tutto, una Charlotte in agonia, a cui la Charlotte viva non ha il coraggio di dare il colpo di grazia.

Mi concentro sul lavoro per non pensare a tutto questo. Sfodero la parte migliore di me, che esiste, e riesco a vendere ben tre opere dei nostri artisti del momento a un cliente entrato per caso. È in vacanza a Milano, mi dice, e apprezzo la sua genuinità. Non credo conosca Gaetano, non credo sappia che quel signore anziano che gira per la galleria è in realtà un artista di fama mondiale, va a gusto personale e mi piace, perché a volte è così che deve essere l’arte: d’impatto, non premeditata, non studiata, non un investimento, ma un mi piace, lo voglio, come un vestito, come tazza per la colazione.

A volte deve, o dovrebbe, solo colpire ed emozionare.

(continua)

 

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