di Francesco Carini – Homo Sum
«Io vivo senza rapporti con la piccola borghesia italiana. Io ho rapporti o con il popolo o con gli intellettuali. La piccola borghesia sì, però è riuscita ad avere rapporti con me, e li ha avuti attraverso i mezzi che ha in mano, sia la magistratura che la polizia e intentato una serie di processi alla mia opera […] ».
(Da “Pier Paolo Pasolini. Cultura e società”, di Carlo di Carlo, 1967 )
Quando si parla di profeti, normalmente il pensiero va ad un essere in grado di “predire” il futuro in nome di una divinità. Il termine si può appunto tradurre letteralmente con: “colui che parla al posto di”, ma, quando si pensa a Pier Paolo Pasolini, anche se può essere considerato un profeta laico, difficilmente lo si assimilerebbe a un intellettuale che parla al posto di qualcun altro, perché la ricerca di libertà sostanziale, non fittizia, è stata una fra le sue caratteristiche peculiari.
Ha sicuramente subito influenze importanti da parte di autentici giganti quali Antonio Gramsci (per citarne uno), ma sinceramente, in qualità di “profeta”, non portava che la sua parola, quella di nessun altro. Al contempo, si può definire un martire, non solo per la tragica fine del 2 novembre 1975, quanto per i 33 processi subiti e le oltre 100 denunce, che, unite agli attacchi di parte della stampa, lo dovrebbero rendere oggi una figura ancora più mitica, capace di sopportare ciò che difficilmente può reggere un uomo normale. Come disse lo storico Paolo Mieli nel documentario Rai “Pier Paolo Pasolini: il santo infame”: «era pronto a prendere su di sé queste ritorsioni, […] a volte col sorriso sulle labbra».
Nato il 5 marzo di 99 anni fa, poeta, scrittore e regista poliedrico, P.P.P. ha rappresentato una figura più unica che rara nella cultura italiana, soprattutto nel cinema. Stando a quanto lui stesso ha affermato il 28 gennaio 1970 durante un’intervista nel corso del programma Cinema 70, si possono distinguere due differenti momenti nella sua attività, in corrispondenza a un cambiamento sociale ed economico dell’Italia:
I primi miei film, da “Accattone” a “Il Vangelo secondo Matteo”, da “La ricotta” ad “Edipo re”, li ho fatti sotto il segno di Gramsci. E infatti nei miei primi film mi sono illuso di fare opere nazional-popolari, nel senso gramsciano della parola e quindi ciò consegue di rivolgermi al popolo, al popolo come classe sociale ben differenziata dalla borghesia, almeno in modo ideale naturalmente, così l’aveva conosciuto Gramsci e come io stesso l’avevo conosciuto da giovane, compresi tutti gli anni ’50.